ABC: Up (1989)
Titolo: UP
Artista: ABC
Etichetta: Phonogram
Anno: 1989
Genere: POP / DANCE
Provenienza:
Sheffield (UK)
Band:
Martin FRY (voce)
Mark WHITE (chitarra e tastiere)
David CLAYTON (tastiere)
Sebbene la qualità della musica degli ABC non fosse poi tanto scadente (e comunque non peggiore di quella dei loro album precedenti) con la fine degli anni ottanta il gruppo era ormai marginalizzato nel mondo dello showbiz, ritenuto una vestigia del passato e ancorato a formule musicali ormai anacronistiche.
Questo quinto disco del gruppo, Up, uscito due anni dopo Alphabet City, venne così trattato con sufficienza dalla critica, quando non proprio ignorato: “Troppo facile essere prevenuti con gli ABC e aspettarsi una sequenza di canzoni troppo intellettuali per i dancefloor, ma troppo uguali una all’altra per ascoltarle come pop. (…) Gli ABC hanno preso certe direzioni per scelta, non per obbligo, e non potevano recitare la naturalezza, così hanno costruito un album di finta house e vero pop. E in effetti, a prenderlo per il verso giusto, Up non è tutto uguale come sembra e non mancano, qua e là, soluzioni gradevoli (però sono quasi tutte citazioni).” (Alex Righi su Rockstar no. 111 del Dicembre 1989)
In realtà, come detto, l’ascolto del disco riserva qualche sorpresa positiva a chi vi giunga prevenuto dalla lettura delle recensioni: Never More Than Now, che lo apre, è per esempio un’eccellente brano di elegante dance, abbastanza convenzionale nello sviluppo, ma con un’ottima intro ed una ancor migliore chiusura con divagazione di tastiere. Poi è vero che brani come The Real Thing sono decisamente banali e trasmettono quel senso di annoiata familiarità che si prova nel sentire un vecchio amico che racconta per la ventesima volta un episodio indimenticabile della sua vita. Buona One Better World, che riporta ad atmosfere Motown anni ’70 grazie ad un bell’intreccio tra tastiere (molto protagoniste), chitarra e coriste, mentre Where Is The Heaven è un ritorno alla dance più sintetica anni ’80. Rispetto al passato le atmosfere si raffreddano, resta l’eleganza, come in The Greatest Love Of All, ma sembra che ne abbiano succhiato via l’anima. I’m In Love With You, con una melodia accattivante cantata in falsetto su di una base da sala d’aspetto di dentista, accentua la sensazione. Paper Thin è forse la più interessante, con un crescendo trainato da una sezione ritmica incalzante, peccato che si infili poi in un vicolo cieco, non riuscendo ad esprimere quello che prometteva inizialmente.
E’ evidente che il buon Martin Fry, in questo disco accompagnato solo da Mark White, dopo aver provato a smarcarsi da sè stesso ed essere stato respinto dal mercato con gravi perdite, si era ormai rassegnato a ripresentare in eterno, con modesti aggiustamenti, la formula cui tanta fortuna aveva arriso con The Lexicon Of Love. Ma i tempi cambiano, quello che all’inizio degli anni ottanta stava sulla cresta dell’onda alla fine del decennio faticava a stare a galla, e neanche scendere a compromessi gli poteva garantire il successo commerciale.
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Voto: 5,5
Roberto Cappelli