Fare rock in Italia – e intendo il termine “rock” in senso stretto – per gli artisti che hanno fatto questa scelta ha significato quasi sempre votarsi ad una carriera oscura, in circuiti semi-clandestini.  La contraddittorietà di tale stato di cose con il successo che la musica rock anglo-sassone riscuote anche nel nostro paese non può essere spiegata solamente con la esterofilia che da sempre connota il carattere italico.  C’entra, probabilmente, la tradizione melodica della canzone italiana, che fa parte del dna anche delle più giovani generazioni, ma un ruolo gioca anche la estrema difficoltà che presenta l’adattamento della lingua italiana alla metrica rock.

Il destino dei veronesi A.C.T.H. non costituisce eccezione alla regola generale sopra richiamata; nella loro carriera, che ha percorso buona parte degli anni ottanta e, in modo più discontinuo, anche il decennio successivo, hanno conosciuto una popolarità limitata ad una cerchia ristretta di appassionati, senza mai riuscire a conquistare il centro della scena.  E questo è un peccato, perché almeno in un’occasione, con il disco che viene considerato il loro capolavoro, Iguana del 1990, avevano saputo proporre una sapida via italiana al rock: su una base dichiaratamente punk (ma in realtà più vicina ad un beat sporco) avevano saputo innestare un eccellente istinto melodico e una abilità tecnica nel cantare il rock in italiano che, sicuramente, derivava da un grande lavoro su questo aspetto. 

Forse, nel loro caso, l’esterofilia ha fatto più danni…