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ABC: storia e discografia

In principio esistevano i Vice Versa, band costituita a Sheffield nel 1977 per seguire gli umori della nascente ala dance della new wave britannica. Sheffield, poco attraente città industriale, sede delle principali acciaierie britanniche, fu la capitale di questo movimento, avendo dato i natali anche a Human League, Heaven 17, Clock DVA, Cabaret Voltaire.  I Vice Versa erano Stephen Singleton, Mark White e David Sydenham.  Erano piuttosto determinati: avevano costituito una loro etichetta, la Neutron Records, con la quale pubblicarono un EP intitolato Music 4 nel 1978 (anno in cui fecero anche da supporto agli Human League).
Giampiero Vigorito scrive che i Vice Versa erano “una band che aveva precorso i tempi creando una miscela di fusion e di elettronica debordante che aveva battezzato exciting dance music”. (2) Nel ricordo Mark White è molto più riduttivo: “Facevamo delle sperimentazioni coi sintetizzatori e cercavamo di rendere la musica eccitante. In realtà la trovavamo piuttosto limitante. Volevamo degli strumenti veri.” (7)

All’epoca Martin Fry (1959), originario di Manchester, che aveva lasciato per andare a studiare letteratura inglese all’università di Sheffield, scriveva su di una fanzine chiamata Modern Drugs e in tale veste andò ad intervistare i Vice Versa; evidentemente dovettero scoprire di avere molto in comune, perchè Fry fu invitato ad unirsi al gruppo: “Nel corso dell’intervista mi chiesero se fossi disponibile a dargli una mano per un concerto che avrebbero dovuto fare a Middlesborough; io dissi di sì e mi presentai nel luogo ed all’ora pattuiti, convinto che avrei fatto il roadie, invece loro mi affidarono una scatola di latta, che era un oscillatore di frequenza fatto in casa. Fui preso dal panico all’idea di salire sul palcoscenico, ricordo di aver considerato seriamente l’ipotesi di fuggire dalla finestra del cesso, ma poi pensai che non avevo niente da perdere e che l’idea di essere in un gruppo mi attirava enormemente. Il mio fu un corso accelerato, una settimana dopo il mio debutto avevamo suonato in otto concerti, incluso il Marquee di Londra. Fino ad allora mi ero limitato a stare sul palco e girare le manopole di questo generatore di rumore e non è che potessi fare degli errori madornali. Poi capitò che Mark White, che fino ad allora era stato il cantante, prese una chitarra e cominciò a strimpellare e, siccome non riusciva a fare le due cose nello stesso tempo, lasciò il ruolo di cantante a me” (17).

Quando il leader David Sydenham abbandonò il gruppo Fry ne prese il posto divenendo front-man. Con Fry i Vice Versa nel 1980 incisero ancora una cassetta (8 Aspects Of Vice Versa) e un singolo (Stilyagi) e andarono in tour con i Clock DVA prima di procedere al cambio di denominazione in ABC (a quanto sembra in omaggio ai Jackson 5, che avevano così intitolato un loro brano di successo). 
Il giudizio di Martin Fry sul confronto tra i Vice Versa e gli ABC è, ovviamente, piuttosto tranchant: “Gli ABC sono un’estensione, sono tutto quello che i Vice Versa non potevano essere per quanto riguarda le idee e la tecnica e la capacità di portare avanti le proprie idee” (5)

La cavalcata verso il primo album è trionfalmente scandita da tre singoli che ottengono un enorme successo sia presso il pubblico che, cosa meno ovvia, nei confronti della critica, con un sound che coniuga elegantemente l’approccio strumentale new wave ad uno stile dance fortemente debitore alla musica soul e funky.  Sono le prime avvisaglie di un suono che ha poi caratterizzato la prima metà degli anni ottanta, radicale reazione al nichilismo che ha informato la rivoluzione punk condotta esaltando alcune delle cose che il punk più aborriva: una musica il cui unico fine è divertirsi e ballare ed una eleganza formale molto curata. 

Il primo singolo che pubblicarono fu Tears Are Not Enough prodotto da Steve Brown. “Seducente, vaporoso, appassionante e che ignora completamente il lato frivolo di certi artisti pop” secondo Giampiero Vigorito (2); “una classica canzone pop moderna. Il suo linguaggio è il disco soul e il suo segreto è il soft funk, la confezione è assai curata e dà un’idea di glamour” per Massimo Buda (1). Il 45 si piazza immediatamente nei top 10 della classifica inglese. 
Ma Fry non era completamente soddisfatto: “Tears Are Not Enough era un brano valido, solo che la produzione non ne ha messo in risalto le qualità. Così per il secondo singolo abbiamo cercato tra i nostri dischi e scoperto che i produttori di cui ci piaceva il sound o erano in America, o erano morti, o tutti e due, finchè non ci è capitato in mano Hands Held In Black And White dei Dollar, che era prodotto da Trevor Horn.” (5). E Trevor Horn raccontò il primo contatto con Singleton: “Mi disse: ‘Se ci produci diventerai il produttore più trendy del mondo’. Fui davvero conquistato da tanta arroganza” (39).

Con la produzione di Horn (ex componente dei Buggles, gruppo che aveva raggiunto un subitaneo successo planetario con una sola canzone, Video Killed The Radio Star, prima di scomparire nel nulla) escono Poison Arrow, un interessante base ritmica ad accompagnare dei coretti alla Donna Summer in semi-falsetto, e The Look Of Love, che entra direttamente nei top 3 in UK (“Prima della pubblicazione di Lexicon Martin fu lasciato da una ragazza e tutti i brani parlano della sua rabbia e del suo sdegno. In The Look Of Love, quando Martin canta ‘When the girl has left you out on the table’ e poi si sente una ragazza che risponde ‘Goodbye’, bè, è quella ragazza. L’idea fu mia, perchè non chiediamo proprio alla ragazza per cui hai scritto questa canzone di partecipare?” Trevor Horn, 39).  Trevor Horn si lanciò, in seguito, in qualche spericolato paragone: “Mentre lavoravo a Poison Arrow capii una cosa, ed era quello che all’epoca dicevo alla gente. E’ come Bob Dylan, tranne il fatto che è disco music invece di una chitarra acustica. Il protagonista parla con sincerità dei suoi sentimenti, ma siccome verrà suonato in una discoteca deve avere le caratteristiche della disco music.” (39)  Mark White, in un’altra intervista, ricorda: “L’approccio che aveva Horn era di riempire tutti gli spazi; se non accadeva qualcosa ogni due secondi avevamo paura che la gente si addormentasse” (15)
Dei tre singoli che hanno preceduto il primo disco Mannucci su Rockstar scrive: “…gli ABC ammiccano sfrontatamente alla new danceability, congegnano impeccabili arrangiamenti funky-disco, meravigliano con la loro ricchezza pancromatica” (3).

I giornalisti inglesi furono molto meno benevoli con gli ABC; l’Inghilterra viveva un periodo difficile che la lady di ferro, Margaret Thatcher, affrontava senza compassione umana e Sheffield in particolare era devastata dalla crisi e dalla conseguente disoccupazione. E’ evidente come tale cupa situazione contrastasse con l’immagine lussuosa e patinata che gli ABC rilanciavano e la critica più militante non mancava di sottolineare il totale distacco del gruppo dalla realtà circostante. Dal canto suo Martin Fry non si aiutava, rilasciando avventurose dichiarazioni nel tentativo di difendersi dalle accuse: “Poison Arrow è un’ottima espressione di quello che sentiamo veramente. Proprio come Joe Strummer voleva esprimere quel senso di rassegnazione ed indifferenza al destino in Straight To Hell, così io in Poison Arrow volevo esprimere esattamente come ti senti quando qualcuno non ti ama più. Dipende da quale argomento scegli di trattare. Questo è tutto quello che ho in mente.” (9)

Tutti i singoli sono accompagnati da video (all’epoca era tutt’altro che scontato) che rafforzano l’immagine seducente che gli ABC vogliono dare di sè stessi e della loro musica; le clip degli ABC, con una rilevante componente scenografica, raccontavano in maniera molto cinematografica la storia solo evocata dalla canzone (“per il video di Poison Arrow abbiamo speso tanti soldi quanti ne basterebbero per comprare una casa con quattro stanze da letto, ma ne valeva la pena” Martin Fry (5)); gli ABC, in effetti, sono stati tra i primi gruppi a comprendere che il video doveva essere considerato una forma di espressione artistica parallela al, e non meno importante del, disco e non semplicemente una clip promozionale di questo: come noterà Simon Frith nel suo classico Il Rock E’ Finito, “i gruppi televisivi da scuola d’arte come Human League, Soft Cell, ABC, Scritti Politti resero l’MTV degli esordi più simile ad una modalità d’intrattenimento legittima che all’ambiguo esercizio commerciale cui, anche soltanto un paio d’anni prima, avrebbe assomigliato. Grazie ai loro ‘espedienti’, gruppi rock ‘autentici’ come Springsteen e gli U2 possono essere ora venduti attraverso il video con ‘integrità’” (38).
Non c’è dubbio che, rispetto a musicisti che compongono, suonano e cantano spinti da una necessità emotiva, dall’urgenza di esprimersi attraverso il medium artistico, gli ABC sono agli antipodi: prodotto industrialmente concepito, pianificato a tavolino per risultare più accattivante per il mercato, con un target di clientela (perchè tale viene considerata, più che un pubblico) di fascia medio-alta.

Illuminante, al riguardo, questa dichiarazione dell’epoca di Martin Fry, sospesa tra presunzione e logica da investment banker: “Siamo tra le band più importanti dell’ultima generazione forse proprio perche abbiamo imparato a trattare con la gente. La gente vuole spendere per cose che durano, tutto o quasi viene oggi visto in forma di investimento e le nostre canzoni tentano, per quanto possibile, di rispettare il valore della moneta” (6).  Del resto, erano i prodromi degli anni ottanta, caratterizzati dagli yuppies e dal trionfo di Wall Street…

Tenendo questo a mente, non vi sorprenderà scoprire che gli ABC erano molto attenti alla componente business della loro attività, rispetto ad altri loro colleghi: si narra di estenuanti trattative per il loro primo contatto discografico con una major, la Phonogram, che si incaricò di distribuire il loro album d’esordio. E sembra che prestassero una maniacale cura alla definizione della campagno di lancio, arrivando a mettere bocca su come dovessero essere disegnati i gadget o su quali iniziative promozionali dovessero essere adottate anche nelle più remote province dell’impero (leggendaria la accuratezza con cui prepararono la conquista del pubblico bulgaro…).

 

THE LEXICON OF LOVE (1982)

 

Il disco d’esordio, uno degli album simbolo degli anni ottanta, viene finalmente pubblicato nel giugno del 1982. Parlandone prima che uscisse Martin Fry aveva detto: “E’ una collezione di canzoni d’amore di ispirazione antica e moderna. (…) Come primo album è buono. Mi sono ascoltato recentemente dei primi album che mi piacciono, il primo dei Roxy Music, il primo dei Joy Division, il primo dei Sex Pistols e nella mia umile opinione mi va di pensare che il nostro si potrà collocare vicino a quelli” (5).  Alcuni anni dopo Martin Fry confermò di non essere rimasto sorpreso dal successo del disco: “Sarei stato altamente sorpreso se non avesse avuto successo: ancora prima che ne fosse stata venduta la prima copia io lo consideravo un album di successo, di successo artistico intendo. Contiene delle buone canzoni, crea un’atmosfera che dura quaranta minuti, è originale e, per me, è come un minifilm del quale noi siano stati i protagonisti ed autori.” (17)
Entusiasta la recensione di Mannucci su Rockstar, che dopo aver individuato nelle doti vocali di Fry uno degli elementi qualitativi degli ABC (“Fry ha l’istinto del grande vocalista, e questo gli permette di interpretare il suo ruolo nella accezione più piena. A suo agio sia nelle tonalità più alte che in quelle confidenziali (ascoltate Show Me o All Of My Heart), il nostro si configura come una sorta di Bowie con il senso dell’umorismo.”), promuove il disco a pieni voti: “Ogni brano è una creazione perfettamente compiuta e distinta da ogni altra. Con The Lexicon Of Love gli ABC siedono già dall’altro lato della cattedra. Quello dei maestri.” (3)

In realtà lo stesso Martin Fry era molto più critico riguardo le proprie doti di cantante: “Su Bait Stamp abbiamo usato una ragazza che si chiama Tessa Webb e secondo me la sua voce su quel brano è pura magia. E il motivo è che mi rendo conto che con la mia voce non posso fare più di tanto.” (5)

E anche la critica più intransigente verso la musica “commerciale”, incarnata dal Mucchio Selvaggio, pur rimpiangendo i Vice Versa (“il creare spettri, paure, percezioni del mondo in disfacimento, lo spregiudicato ed originale uso delle tastiere che evocavano disastri con un lirismo tenue e composto, sono ormai persi per sempre”), non riesce a nascondere qualche simpatia per il disco: “The Lexicon Of Love è attraversato da cima a fondo da stucchevoli quanto perfetti arrangiamenti di archi e fiati, con ritmiche disco o quantomeno adatte a danzare, e con un cantato che a più riprese ricorda Tom Jones o suoi epigoni; viene in tal modo premiato l’esercizio meramente calligrafico che, con la produzione ineccepibile, mette il belletto ad idee ormai stantie. Eppure, sebbene non mi coinvolga, il gioco in sè riesce: il disco non scende mai nel melenso e nel ripetitivo, i tasti dell’occasione vengono tutti toccati con classe e finezza tali da non affaticare mai chi ascolta. Forse è proprio questa maestria, questa intelligenza, a mio parere così male adoperata, a far masticare amaro chi invece aveva amato gli ABC sotto le vesti meno appariscenti ma più concrete dei Vice Versa” (4)

Sul Ciao 2001 Francesco Adinolfi confessa la propria fascinazione per il disco, ma anche qualche intima perplessità: “Una cover elegante, fatta per saltare agli occhi in un attimo e creare stupore. Il tutto lontano da ogni sfogo elettronico primigenio, miscele di funk e pop, cascate di dance vellutata, The Lexicon Of Love contiene tutto questo. E’ forse uno degli album più hollywoodiani che mi sia capitato di ascoltare, tutto è perfetto, collocato al momento giusto ed è proprio questo che mi spaventa. The Lexicon Of Love, come tutti i suoni della band, è troppo bello per essere vero. (…) Sensazioni di assoluta claustrofobia, in Lexicon Of Love non c’è continuazione, si è piuttosto di fronte ad un’orgasmica, barcollante successione, una circolarità ripetuta e ripetuta. L’effetto è quello di un minuscolo spazio in cui gli ABC si scuotono agitandosi, è uno sforzo prolungato per ricamare un tessuto sonoro che risulta, alla fine, ricamatissimo.” (6)

Credo sia giusto riconoscere che The Lexicon Of Love è un disco certamente riuscito; il progetto di partenza era talmente ambizioso da rendere altissimo il rischio che la ricetta si rivelasse indigesta per eccesso di ingredienti; invece, miracolosamente, Martin Fry e compagni riescono a trovare un punto di equilibrio, restando un passo in qua rispetto al kitsch.  L’insieme è armonioso ed elegante, i brani si distinguono non solo per la confezione, ma anche per una felice vena melodica, presente non solo nei singoli che avevano fatto da battistrada, ma anche in altre canzoni, come All Of My Heart, secondo me la più bella del disco, o 4Ever 2Gether, energetica e con accenti futuristi.
In ogni caso The Lexicon Of Love resta, nel suo genere, un piccolo classico, come attestato dai più autorevoli repertori, come la Album Guide di Rolling Stone (36): “rimane uno dei più accattivanti, divertenti e intelligenti dischi che siano emersi dalla brigata pop britannica degli anni ottanta”, o la Rock Rough Guide (37): “the Lexicon of Love resta il miglior disco della loro produzione complessiva. Lussuoso, cinematografico e danzabile ha diviso i critici (…) ma gli acquirenti di dischi lo hanno amato”. E come confermato anche dall’ammirazione che gli tributarono i loro colleghi; addirittura Phil Oakey, leader degli Human League, che nel 1982 erano balzati addirittura in testa alla classifica USA con Don’t You Want Me disse “Hanno modificato a tal punto le mie opinioni che non credo faremo più dischi del tutto sintetizzati… Non possiamo fare tutto con le manopole del sintetizzatore. Dobbiamo dire la nostra in settori come le grandi sezioni d’archi e i grandi suoni dei fiati, come fanno loro.” (39)

All’inizio del 1983 gli ABC andarono in tournée (anche negli USA) accompagnati da un’orchestra, che comprendeva una sezione archi di sei elementi, con scenografie a base di tende di velluto rosso e un paio di cambi di costumi; “anche i roadies indossano lo smoking” annotava diverito Roy Trakin, al quale Martin Fry, a proposito della costruita presenza scenica degli ABC, disse: “E’ un mix di combustione spontanea e pianificazione. Il formale e l’informale. Il fatto di indossare giacca e pantalone sul palcoscenico non ci impedisce di scatenarci a ballare come la J. Geils Band. Siamo perfettamente consapevoli che la gente, vedendo il nostro palcoscenico, pensa a Las Vegas o a Tom Jones. Ma quella è la gag. Definiamo la premessa e poi la sovvertiamo.” (8).
Non mancarono le voci critiche, come quella di Chris Salewicz: “Sono andato a vederli suonare all’Hammersmith e sono veramente inorridito. Tra strumenti a corda, fiati, bassisti aggiuntivi e voci d’accompagnamento c’erano ben sedici persone sul palco, che era fatto come una scatola di cioccolatini, tutto appariscenti tinte pastello e luci dolciastre. Inoltre, come spesso accade quando si apre una scatola di cioccolatini, dentro si trova tutta roba dolce e appiccicaticcia, impossibile trovare il cuore, per non parlare dell’anima.” (9)

Nel corso della tappa giapponese il batterista David Palmer decise di abbandonare il gruppo (“voleva fare un provino per la Yellow Magic Orchestra”, ironizzò Martin Fry (37)), e finì poi per suonare nei The The.

Il tour del 1983 era destinato a rimanere un evento isolato: per lungo tempo, infatti, gli ABC non tornarono a suonare dal vivo.


Comunque, nonostante tutte le critiche e lo scetticismo, gli ABC archiviarono il 1983 come un anno di grande successo.  L’album era stato numero 1 in UK e aveva vinto il disco di platino. Ritornati dal tour, fecero per qualche tempo perdere le loro tracce, unica interruzione del silenzio l’uscita di un video intitolato Mantrap girato da Julien Temple che in un’ora circa alternava brani dal vivo con una storia poliziesca. 
Tra le molte celebrazioni dell’album bisogna ricordare l’esecuzione integrale dello stesso nell’aprile del 2009 fatta dagli ABC (all’epoca Fry e Palmer) alla Royal Albert Hall accompagnati dalla BBC Concert Orchestra diretta da Anne Dudley degli Art Of Noise (che nella versione originale del disco aveva suonato le tastiere).

Nel 2005 ne è stata pubblicata una deluxe edition che, oltre al disco originale, contiene alcuni remix, qualche lato b di singoli, un live in concert e dei demo.  Nel commentarla Daniele Cassandro rievoca l’importanza dell’album: “E’ difficile che un album catturi in modo totale il sapore di un’epoca. The Lexicon Of Love è uno di quei dischi. (...) Con il suo pop glitterato e leggerissimo, i lussuosi arrangiamenti orchestrali che ricoprono come una glassa zuccherina linee di basso sporchissime e funky, era il disco ideale per lasciarsi traghettare in un’epoca nuova. Martin Fry, con la sua zazzera ossigenata, i suoi testi frivoli da Cole Porter di periferia e i suoi smoking tempestati di lustrini, incarnava alla perfezione quello stato d’animo.” (44) E anche John Harris su Mojo ne tesse, sia pure con un po’ di snobismo, le lodi: “Innamorarsi di canzoni perfette come The Look Of Love – piena di talkover consapevolmente assurdi – o la stupefacente All Of My Heart, a tutt’oggi uno dei singoli degli anni ottanta più sottovalutato, è questione di un attimo, come andare in estasi per i classici Motown.” (43)
 

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BEAUTY STAB (1983)

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Il successore di The Lexicon Of Love viene annunciato dal singolo That Was Then And This Is Now, che sin dal titolo (ma anche come stile musicale) lascia intuire che gli ABC non hanno voluto limitarsi a proporre una replica del fortunato disco d’esordio, ma hanno deciso di battere altre strade.  In effetti già l’apertura del pezzo è in purissimo stile Roxy Music, poi nel seguito della canzone le reminiscenze di Lexicon si mescolano con gli accenti glam, fino all’interessante finale con chitarra elettrica distorta.  Insomma, uno shock per i seguaci dei primi ABC, e ad aumentare lo sconcerto il video della canzone viene bandito dalla popolare trasmissione della BBC Top of the Pops perchè considerato troppo… politico!
“Ci siamo trovati di fronte all’impossibilità di continuare a scrivere di night clubs, cuori spezzati e spiagge assolate; quello è il tipo di canzone che potrei continuare a scrivere a occhi chiusi, ma ripetere la struttura delle canzoni contenute in The Lexicon Of Love sarebbe stato disonesto da parte nostra; in questo anno abbiamo viaggiato molto, abbiamo veduto molte cose che hanno allargato le nostre vedute; abbiamo visto la realtà e abbiamo deciso di non voltarci dall’altra parte.” (Martin Fry, 10). “E poi non volevamo passare il resto della nostra vita in lamè.” (Stephen Singleton, 10).

Il disco è prodotto da Gary Langan, che prende il posto di Trevor Horne, ma gli ABC sembrano sminuirne il ruolo: “Trevor ci è stato di molto aiuto nel nostro primo album perchè era la prima volta che avevamo a che fare seriamente con una sala di incisione e sono il primo ad ammettere che il suo gusto musicale si rispecchia in molte cose del primo album, ma ora siamo diversi, più esperti, i suoni che vogliamo produrre sono più crudi, abrasivi, incisivi.” (Mark White, 10).
Nel long playing, intitolato Beauty Stab ed uscito alla fine del 1983, ai tre componenti base del gruppo si affiancano Andy Newmark alla batteria e Alan Spenner al basso che, all’epoca, militavano nei Roxy Music: non una scelta casuale, perchè la virata del sound degli ABC è spettacolare, percepibile sin dalla veste grafica, dove al lusso patinato della scena da film anni trenta si sostituisce un dipinto raffigurante l’elegante volteggio di un torero. Abbandonata la scintillante dance del disco d’esordio, che nel frattempo era diventata fenomeno di massa grazie a gruppi come i Duran Duran e gli Spandau Ballet, Fry e compagni si trasferiscono armi e bagagli sotto le insegne del dandy rock di cui Bryan Ferry, leader carismatico dei Roxy Music, è l’indiscusso vate. Come scrive nella propria enciclopedia Rolling Stone: “Per Beauty Stab (gli ABC) presero due sorprendenti decisioni: di diventare del tutto seri e di usare chitarre pesanti, perchè, come la gente tendeva a credere nel 1983, le chitarre significavano sincerità.” (36)

Ovvio che tutti i recensori del disco si concentrassero su questo inaspettato cambio di direzione. La recensione di Davide Tenigli su Tuttifrutti è indecisa: “Non aspettatevi un bis di quel capolavoro di poesia e stile che è stato The Lexicon Of Love, primo splendido disco di questi ABC. (…) E’ un disco che indubbiamente presenta dei vuoti (…) ma non può dirsi affatto brutto.  I testi sono interessanti ed anche le musiche ci piacciono, nonostante, forse, la poca amalgama raggiunta con il nuovo batterista ed alcuni vistosi cali di ritmo che fanno un po’ perdere il filo. Ma il disco è bello.” (11)

Del resto, che la discontinuità con l’esordio non fosse casuale venne confermato anche dallo stesso Fry: “Volevamo un album di suoni completamente diversi, abrasivo, basilare, diretto; non più canzoni d’amore, ma canzoni sull’Inghilterra nel 1983, il periodo della Grande Disillusione; ci eravamo accorti di molte cose nel frattempo, non potevamo chiudere gli occhi e continuare a scrivere canzoni d’amore” (17).

Anche Duncan Strauss su Record è perplesso e confeziona una recensione dolceamara: “Con Beauty Stab il gruppo inglese conserva qualcosa dei tratti seducenti ed eleganti che contaddistinguevano il loro esordio, ma introduce anche elementi inaspettati in quantità sufficiente ad evitare di fare semplicemente Lexicon II.  Sebbene tale approccio sia ammirevole, Beauty Stab offre risultati contraddittori: l’equivalente sonoro di vestirsi in pompa magna per poi andare in chiesa e ruttare.”  Strauss nota come in un paio di brani (The Power Of Persuasion e Hey Citizen) si trovino tracce persino di heavy metal e aggiunge: “A favore degli ABC va detto che questi passi falsi stilistici non rovinano completamente Beauty Stab (…) essendo compensati dalle osservazioni intriganti, dalla agilità verbale e dall’asciutta arguzia che continua ad animare i testi di Martin Fry.  Tuttavia, con le proprie svolte pericolose gli ABC sollevano più domande di quante risposte diano riguardo alla direzione musicale intrapresa dal gruppo.” (14) 
Il riferimento a influenze heavy metal, ricorrente per quanto improbabile, fu commentato in un’intervista da Martin Fry: “Non siamo un gruppo heavy metal, non credo che abbiamo dentro questo spirito. Non sono un santo, ma non ho buttato abbastanza televisori fuori dalla finestra di abbastanza camere d’albergo. Ma sì, l’enfasi ora è sulla chitarra. Magari per dire qualcosa che un gruppo di heavy metal non si sognerebbe di dire. L’heavy metal ha i suoi pregi e i suoi difetti. Molti lo trovano un po’ monotono, ma il sound fisico di una chitarra suonata al massimo volume credo parli per sè stesso” (15)

Ha pochi dubbi, invece, Enzo Gentile nel raccontare Beauty Stab ai lettori di Rockstar: “Attesi al varco naturalmente con curiosità moltiplicata alla seconda prova, gli ABC arrivano con il fiato corto, palesando sbandamenti e vuoti musicali abbastanza preoccupanti. Beauty Stab, infatti, non solo non riesce a proseguire il discorso avviato splendidamente con The Lexicon Of Love, ma addirittura se ne allontana, abbracciando un rockettino abbastanza innocuo e privo di fascino, estraneo a quei giochi di seduzione e ammiccamenti che invece facevano da protagonisti nello stupefacente lavoro d’esordio. (…) L’ascolto di Beauty Stab a tratti infastidisce, altrove solletica, ma mai appassiona. Il vero grande merito resta invece nella purezza dei suoni, nella trasparenza della voce e degli strumenti.” (12) 

Positivo il commento di Adinolfi (che del resto era un entusiasta ammiratore del gruppo) su Ciao 2001: “Cambiare per la band è drastica eliminazione di sbavature Stax e Motown barattate per rock’n’roll endemico desuetamente 70’s. L’estetica commerciale di Lexicon Of Love si sopprime da sola in un rock’n’roll che cresce secondo su secondo. Anche in Beauty Stab ci sono strati inevitabili di overdubs, tutto però sa di umano. Beauty Stab è una serie di osservazioni, dodici stadi ritmici in continuo farsi autonomo, solidi, immediati. Lexicon of Love era anche arrogante, imbarazzante, Beauty Stab è diverso, una scatola di cromatismi.” (13)

La storia della somiglianza con i Roxy Music dal momento dell’uscita dell’album perseguitò gli ABC.  Alla domanda: non è che gli ABC stanno solo vendendo un prodotto Roxy Music riconfezionato per i ragazzi che sono troppo giovani per aver fatto il primo giro con l’originale? Martin Fry risponde: “No, almeno su me personalmente i Roxy non esercitano una grossa, grossa influenza. Ma sono un gruppo che rispetto. Mi irrita un po’ quando la gente ci paragona, e immagino che sia ancora più irritante per qualcuno come Bryan Ferry leggere questi paragoni. No, mi piacevano i Clash. Loro per me erano ‘il’ gruppo. Ho comprato tutti i loro dischi e li ho visti in concerto per un numero di volte abbondantemente a due cifre. Anche i Kraftwerk avevano per me qualcosa di speciale, in un certo momento.” (15)
Mark White, dopo essersi lasciato sfuggire in un’intervista che tra i suoi chitarristi preferiti, accanto a Marc Bolan e Pete Shelley (Buzzcocks) c’è anche la (peraltro immensa) lead guitar dei Roxy Music, Phil Manzanera, alla inevitabile domanda tormentone successiva reagì vivacemente: “Che cosa significa ‘come i Roxy Music’? Quale disco? Ne hanno fatti una decina. Io non trovo nessun parallelo di nessun tipo, a parte il fatto che i Roxy hanno fatto dischi con un briciolo di stile. Faresti fatica a comprimere una qualsiasi delle canzoni di Beauty Stab in un disco dei Roxy. Forse una. Certo, sono uno dei miei gruppi preferiti…” (15).  Meno suscettibile sull’argomento Stephen Singleton: “Abbiamo 22, 24 e 25 anni e dire che siamo rimasti incontaminati dai Roxy, David Bowie, T-Rex e compagnia sarebbe semplicemente una menzogna. Sono loro che mi hanno ispirato a cominciare a suonare il sax – ascoltavo Andy Mackay e Bowie… e David Sanborn. Forse sono troppo vicino alle cose per rendermene sempre conto, e non riesco a vedere i collegamenti, o meglio, vedo alcuni collegamenti, sappiamo da dove abbiamo preso alcune idee.  Ma questo esisterà sempre nella musica. Non puoi essere totalmente originale, a meno di fare un album a base di trilli di suonerie (osservazione da pleistocene, epoca in cui non esistevano i telefoni cellulari… ndr), ed anche in quel caso la gente direbbe: si vede che ti piacciono Yoko Ono e Laurie Anderson” (15) 

Ho adeguatamente sottolineato l’importanza di The Lexicon Of Love come album icona di una certa epoca musicale, ma devo confessare la mia personale debolezza per Beauty Stab, che considero non solo un inaudito atto di coraggio (gettare alle ortiche una formula di successo non è comune), ma anche il miglior disco degli ABC: in questo giudizio certamente ha un ruolo importante il mio amore per il glam rock (David Bowie e Roxy Music sono, a mio avviso, due monumenti del rock), che di gran lunga supera la affezione per la musica dance.  Tuttavia, devo riconoscere che il mio giudizio è piuttosto isolato (e le citazioni delle recensioni dell’epoca ne danno abbondantemente conto).

Resta il fatto che le sonorità di Beauty Stab sono meno finte di quelle di The Lexicon, senza per questo perdere di vista la melodia, che Martin Fry maneggia con grande abilità: di That Was Then abbiamo già detto, ma anche If I Ever Thought You’d Be Lonely, ad esempio, si giova di un refrain in cui la tensione sospesa della base ritmica, accompagnata dalla tastiera elettronica, si risolve in un’armonia di ampio respito. 

The Power Of Persuasion parte con delle inedite schitarrate alla Bryan Adams e, in genere, mantiene un passo da brano rock duro, al quale si adegua il cantato vigoroso, lontano dagli stilemi confidenziali tipici di Fry, e solo il suadente ritornello costituisce un pallido ricordo della provenienza dance del gruppo. “Power of Persuasion parla di come il mondo della pubblicità possa venderti qualsiasi cosa, da uno skateboard ad un primo ministro o un presidente e di come si venga spesso persuasi a comprare delle cose che non si vogliono veramente.” (Martin Fry, 15)

Beauty Stab, brano strumentale, sia nell’uso del sax che della voce in veste strumentale, riporta alla mente David Bowie; il disco è meno convincente nelle parti in cui il suono si appesantisce (King Money, Bite The Hand) e anche le sonorità pop-dance non vengono completamente ripudiate, come in Unzip, specie nel riff, e nella successiva S.O.S., una ballata pop melodica con rassicuranti controcanti femminili e una bella apertura di sax alla fine.

E forse il mio parere non è condiviso neanche da Martin Fry, se è vero che anni dopo affermò: “Sinceramente, pare un nonsense la presenza di un simile lavoro nella nostra discografia.” (25). Ma per Justin White, redattore della scheda dedicata agli ABC sulla Rock Rough Guide, “visto retrospettivamente è stata una delle mosse più audaci di carriera di quei tempi e anticipò una tendenza verso il pop politico che si affermò due o tre anni più tardi.” (37)

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How To Be A Zillionaire (1985)

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Con una sequenza che ricorda il capolavoro di Agatha Christie, Dieci Piccoli Indiani, dopo che nel secondo disco il quartetto si era ridotto a trio per l’uscita di David Palmer, in occasione del terzo lavoro gli ABC si ritrovarono in due, a causa dell’uscita di Stephen Singleton.  Interrogato sul motivo di tante continue defezioni Martin Fry rispose: “Sono diventati tutti matti! No, in realtà ci sentiamo ogni tanto, tranne che con Dave Palmer che se n’è andato in Giappone a lavorare con la Yellow Magic Orchestra, di cui è sempre stato un grosso fan.  Mark Lickley lavora nel ramo delle costruzioni e Steve Singleton ha un negozio di abbigliamento a Sheffield: si era convinto che con The Lexicon Of Love avessimo raggiunto la perfezione e ha preferito lasciare l’attività musicale.” (23)
Nel gruppo entrarono, ma in veste di comprimari, il texano David Yarritu e una ragazza che si faceva chiamare Eden, all’anagrafe Fiona Russell Powell; “Abbiamo tenuto delle audizioni – spiegò Singleton – e dopo aver visto centinaia di candidati io e Martin abbiamo deciso che per gli arrangiamenti potevamo fare da soli, mentre per tutto il resto preferivamo gente dalle idee stimolanti, come Eden e David” (21)

Ma in un’intervista del 2006 Martin Fry confessò che “a volte gli esperimenti falliscono. Hanno fatto parte del gruppo per circa 20 minuti, ma abbiamo fatto a tempo a fare il cartoon per il video di How To Be A Zillionaire e un paio di altre clips. Non c’era una vera strategia nel prenderli, volevamo solo andare in direzione completamente opposta rispetto a quello che la gente si aspettava da noi. Volevamo fare un disco che fosse completamente sintetico e meccanico. Abbiamo passato molto tempo a sviluppare il sound e dopo aver finito il disco decidemmo che volevamo essere in qualcosa tipo un circo o un film di Fellini. Mark White mi disse – è venuto a parlarmi David Yarritu ed è esile, così mi farà sembrare ancora più alto di quanto non sia. La casa discografica odiava questo approccio, lo odiava veramente, erano scioccati, loro avrebbero voluto che facessimo The Lexicon Of Love part 6, ma fortunatamente, come quando arriva la cavalleria da dietro la collina, è stato il nostro disco che ha venduto di più in America. E nel tempo è stato molto campionato da artisti hip hop.” (42)
Il disco su Rockstar rimedia una solenne e sprezzante stroncatura da parte di Enrico Sisti (16), e non da meno è Giampiero Cara su Ciao 2001 (che pure, si noti, era la rivista più indulgente verso l’insipido pop dance di quel periodo): “E’ imbarazzante trovarsi di fronte a un disco del genere. Un naufragio inaspettato ma drammatico, avvenuto con un disco che doveva lanciarli definitivamente e che invece ne affossa con poche possibilità di riscatto le velleità artistiche. How To Be A Zillionaire è uno degli album più brutti degli ultimi anni. Le sue putride radici affondano in un techno-pop dozzinale e senz’anima, ossessivo e martellante fino all’esaurimento nervoso.” (18)

Su Music invece uno dei critici di più lungo corso, Pino Caffarelli, si scandalizza di meno e cerca le linee di continuità della parabola artistica degli ABC: “The Lexicon Of Love fu album manifesto del techno-pop: sembra passato un secolo, e son solo tre anni. Quel ritmo liquido, pungente, pressocchè perfetto nella forma, avrebbe lasciato il segno. In Italia si mosse poco, perchè all’epoca il nostro mercato teneva ancora le antenne abbassate. Beauty Stab, progetto ambizioso, si autocondannò invece ad un fiasco commerciale, tutte quelle istanze rock mal si conciliavano con le attese degli edonistici anni ’80. How To Be A Zillionaire è, allora, sintesi delle due esperienze.” (19)

Tesi ardita, perchè in realtà How To Be A Zillionaire non ha certamente nulla a che spartire con Beauty Stab, mentre è ben individuabile, pur nelle rilevanti differenze stilistiche, la linea di continuità musicale con il celebrato esordio: se vogliamo, l’unica cosa in comune tra il secondo e questo terzo disco degli ABC è nel rifiuto (assoluto nel primo caso e più blando in questo) a piegarsi alle pressioni di chi avrebbe voluto la ripetizione all’infinito della formula di Lexicon.  Ma il disco è inequivocabilmente dance, con una dose di elettronica molto più massiccia, e in qualche tratto dominante, rispetto al passato, e la ben nota abilità di Fry nel maneggiare la melodia a connotare i brani più riusciti.  Così si trovano episodi più convenzionali (come Fear Of The World o Vanity Kills) accanto a brani di grande fascino (Be Near Me, Between You And Me e, soprattutto, Ocean Blue); la sintesi tra le due anime si realizza nella title track e nella divertente 15 Storey Halo.

Commercialmente il disco si rivela un fiasco in UK e, in genere, in Europa, ma sorprendentemente (o forse non tanto) vende bene negli USA. L’enciclopedia di Rolling Stone, pur confermando il giudizio negativo sul disco nel suo insieme, definisce “favolosamente struggente” il singolo Be Near Me, e (secondo me esagerando) lo considera l’unico brano della carriera degli ABC all’altezza dell’esordio di The Lexicon Of Love (“da qualche parte nella vostra vita dovete trovare un posto per Be Near Me”) (36).
All’epoca si parlò della possibilità che il gruppo, che aveva completamente abbandonato l’attività concertistica dopo il controverso tour del 1983, tornasse a suonare dal vivo nel 1986 per promuovere il disco.  In realtà non accadde: secondo alcune fonti (33) in questo periodo Martin Fry era fortemente indebolito dal Morbo di Hodgkin.

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ALPHABET CITY (1987)

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Non c’è pace per gli ABC; quando compare nei negozia il quarto album, Alphabet City, i due caratteristi, Eden e David Yarritu, sono già altrove da tempo; accanto a Fry e White suonano dei session-men (David Clayton alle tastiere e Graham Broad alla batteria).
Il titolo “è riferito ad un mondo ideale, rappresenta una specie di Shangri-la dove tutto scorre nel senso giusto, in cui gioia e ottimismo sono la regola. Come svegliarsi al mattino, aprire la finestra e respirare aria pura.” (25)

Martin Fry lo definì, all’uscita, un “paradiso ritmico” (23) e “il nostro lavoro più sudato e voluto” (25). Paragonandolo ai dischi precedenti aggiunse: “Alphabet City ha un sapore più cosmopolita, destinato ad un audience ben maggiore. Riprende certe atmosfere di Lexicon Of Love, distanziandosi nettamente dai tratti vagamente heavy di Beauty Stab e dai toni famigliari e compiacenti di How To Be A Zillionaire. Qui il range musicale è più ampio e il target diversificato.” (25)

Ma ormai gli ABC hanno perso credibilità per la critica musicale italiana, come dimostra la recensione di Stefano Mannucci per Rockstar: “Alphabet City ha un buon titolo: Amos Poe ci girò molti metri di pellicola per raccontarci di una zona di New York dove la glamorous life non transita neppure per sbaglio; non manca qualche brano stuzzichevole, ma non è possibile citare i mostri sacri del soul (come in When Smokey Sings), rubando i contrappunti agli Chic (The Night You Murdered Love), scimmiottando Bryan Ferry (Ark Angel) e tentare al tempo stesso languide carezze Spandau Ballet (Bad Blood). Troppi furtarelli per riabilitarsi dopo un passato non proprio trasparente.” (24)

Giudizi viziati da pregiudizio, a mio modo di vedere; contrariamente a quanto affermato da Mannucci, il disco mostra una certa unità e coerenza stilistica.  Gli ABC, forse sfiniti dalle insistenze dei discografici, voltano le spalle alle sonorità elettro-dance che avevano conquistato l’America e realizzano un lavoro che si riallaccia solidamente alla eredità di The Lexicon Of Love.  Clima elegante e soffuso, con meno lustrini rispetto al primo album, testimonianza del raggiungimento dell’età della maturità.  Molti i brani che si ascoltano con piacere: When Smokey Sings è in puro stile Lexicon e, giocherà anche con l’ingenuità dell’ascoltatore, ma funziona! Semmai l’elemento di dubbio può essere proprio la sensazione di già sentito, che si estende alla non meno piacevole The Night You Murdered Love, che sfoggia le stesse atmosfere vellutate, con una ritmica non invadente e contrappunti di archi.  In Rage And Regret, più ritmata e allegra, compaiono anche i cori in falsetto, mentre King Without a Crown è un piacevole brano pop dance.

In fondo, qualitativamente Alphabet City è un buon disco, uno dei migliori della discografia degli ABC ascoltato oggi, ma la formula che era risultata irresistibile nel 1982 era irrimediabilmente anacronistica cinque anni dopo.  La musica degli anni ottanta, bene o male (più male che bene), era andata avanti e gli ABC, ritornando alla casella di partenza o quasi, si condannavano alla marginalizzazione.

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UP (1989)

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Sebbene la qualità della musica degli ABC non fosse poi tanto scadente (e comunque non peggiore di quella dei loro album precedenti) con la fine degli anni ottanta il gruppo era ormai marginalizzato nel mondo dello showbiz, ritenuto una vestigia del passato e ancorato a formule musicali ormai anacronistiche. 
Il quinto disco, Up, uscito due anni dopo Alphabet City, venne così trattato con sufficienza dalla critica, quando non proprio ignorato: “Troppo facile essere prevenuti con gli ABC e aspettarsi una sequenza di canzoni troppo intellettuali per i dancefloor, ma troppo uguali una all’altra per ascoltarle come pop. (…) Gli ABC hanno preso certe direzioni per scelta, non per obbligo, e non potevano recitare la naturalezza, così hanno costruito un album di finta house e vero pop. E in effetti, a prenderlo per il verso giusto, Up non è tutto uguale come sembra e non mancano, qua e là, soluzioni gradevoli (però sono quasi tutte citazioni).” (Alex Righi su Rockstar, 27)

In realtà, come detto, l’ascolto del disco riserva qualche sorpresa positiva a chi vi giunga prevenuto dalla lettura delle recensioni: Never More Than Now, che lo apre, è per esempio un’eccellente brano di elegante dance, abbastanza convenzionale nello sviluppo, ma con un’ottima intro ed una ancor migliore chiusura con divagazione di tastiere. Poi è vero che brani come The Real Thing sono decisamente banali e trasmettono quel senso di annoiata familiarità che si prova nel sentire un vecchio amico che racconta per la ventesima volta un episodio indimenticabile della sua vita. Buona One Better World, che  riporta ad atmosfere Motown anni ’70 grazie ad un bell’intreccio tra tastiere (molto protagoniste), chitarra e coriste, mentre Where Is The Heaven è un ritorno alla dance più sintetica anni ’80.  Rispetto al passato le atmosfere si raffreddano, resta l’eleganza, come in The Greatest Love Of All, ma sembra che ne abbiano succhiato via l’anima.  I’m In Love With You, con una melodia accattivante cantata in falsetto su di una base da sala d’aspetto di dentista, accentua la sensazione.  Paper Thin è forse la più interessante, con un crescendo trainato da una sezione ritmica incalzante, peccato che si infili poi in un vicolo cieco, non riuscendo ad esprimere quello che prometteva inizialmente. 
Dopo la pubblicazione del disco uscì un’antologia, Absolutely (“E’ una specie di psicanalisi, è come guardare le vecchie foto; un’antologia di solito è il bacio della morte per un artista” (28)), e poi gli ABC lasciarono la casa discografica per cui incidevano, la Phonogram e firmarono con la EMI / Parlophone.

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ABRACADABRA (1991)

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Rispettando la cadenza biennale, Martin Fry ritornò sul mercato con un nuovo prodotto nel 1991. Le prime sessioni di registrazione avvennero negli USA, a Detroit, New York e Chicago, con diversi tra i produttori che all’epoca andavano per la maggiore, come Frankie Knuckles e Steve Hurley.  Ma il risultato non convinse Fry e White (“quello che ne è uscito fuori, alla fine, era una continuazione di Up” (28)) che ritornarono in Inghilterra e ricominciarono da capo. 
“Non abbiamo pubblicato nulla del materiale registrato in America perchè era troppo legato al presente, mentre invece noi volevamo muoverci un po’ più avanti, sperimentare un po’ ed esprimere ciò che veramente sentiamo, invece di mettere insieme idee annacquate di altre persone. Volevamo fare qualcosa di bello, di elegante. Così abbiamo portato a termine un lavoro più sensuale, rilassato. La nostra canzone Love Conquers All non appartiene ad alcuna tradizione, è questo ciò che ci piace.” (28)

In sala con loro, turnista di gran lusso, Phil Manzanera, chitarrista dei Roxy Music: “Phil suona in Spellbound, che è anche la mia canzone preferita. Siamo stati noi a proporgli di suonare nel nostro disco perchè oltre a considerarlo un musicista di enorme esperienza ritenevamo che avesse una propensione e un approccio alla musica simile al nostro: una voglia continua di sperimentare. Così gli abbiamo telefonato per parlarne e lui ha accettato.” (32)
Rispetto al precedente, Abracadabra riscosse maggiore attenzione dalla critica, con anche qualche aperturaa tiepidamente positiva, come quella di Rosario Nesci su Ciao 2001: “Il nuovo disco Abracadabra torna alle fascinose atmosfere delle canzoni che hanno riflesso al meglio la loro estetica frivolamente romantica, pur restando essenzialmente un disco dance-oriented, in cui brillanti intuizioni melodiche vengono immerse in suoni, arrangiamenti che fanno pensare più a certo soul moderno, levigato asettico che a una tradizione, a un gusto, tipicamente europeo che sicuramente più si confà all’ispirazione del gruppo (in questo senso sono notevoli sia All The Matters che, soprattutto, Spellbound)” (29)

Paolo De Bernardin su Rockstar, invece, non mantenne sotto la soglia della sufficienza il proprio giudizio: “La produzione è piuttosto curata (…) tutto il suono del disco è il frutto di una continua ricerca che la coppia ha effettuato negli studi americani, un’elaborazione sonora che strizza l’occhio alla musica nera di tendenza senza tuttavia arrivare ad esprimersi con quel colore e quel ritmo. Tutto viene ammorbidito nel trasferimento a Londra, quasi romanticizzato come dimostrano le atmosfere di tutto l’album. (…) Negli anni novanta, però questa è una scommessa molto difficile da vincere. Da una parte l’impulso delle mode e dei ritmi la cui corsa industriale ha tempi e velocità sconcertanti, dall’altra la mancanza di una forte personalità dei protagonisti non fanno ben sperare per il futuro.” (30)

Ci fu anche chi si dimostrò entusiasta, come Fabio De Luca su Velvet: “Un bellissimo esempio di pop elettronico non banale, nato dall’unione tra essenzialità house e gusto citazionista di tirare in mezzo tutti o quasi i propri classici: Love Serenade della Love Unlimited Orchestra ad esempio (in Unlock The Secrets Of Your Heart) o Searching dei Change in This Must Be Magic, e solo per menzionare i più evidenti. (…) L’effetto è strano e niente affatto sgradevole: dance music consapevole del proprio valore, assolutamente cool, soffice ed ipnotica al punto che il disco lo metti e va da solo dalla prima all’ultima traccia.” (31)

Quindici anni dopo parlando dell’album Martin Fry espresse sentimenti meno positivi: “Ci sono un paio di canzoni carine. Lavorammo con Phil Manzanera su quel disco e questi sono i ricordi più felici della lavorazione dell’album. Era come se avessimo bruciato gli anni ’80 e ci fossimo catapultati nei ’90, avevamo firmato per la EMI e c’era un alto livello di aspettativa, grande pressione. Abbiamo sempre lavorato meglio partendo da outsider. Eravamo senza energie; non lo so, ci sono un paio di buone canzoni – sono un critico molto severo – Love Conquers All e Spellbound sono buone.” (42)

Dopo la pubblicazione del disco Mark White decise di andare per la sua strada e Martin Fry, rimasto solo, per qualche tempo formò i Magic Skulls con Keith Lowndes e Glenn Gregory (Heaven 17).

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8. SKYSCRAPING (1997)

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L’abbandono di Mark White fu un duro colpo per Martin Fry ed il lungo intervallo (sei anni) che separa Abracadabra da Skyscraping sta a testimoniarlo.  Il nuovo album, dopo l’effimera attenzione dedicata ad Abracadabra, riprecipitò ai confini del mondo rock; tra i pochi che gli dedicarono qualche cenno, Nucci su Rockstar: “Un compromesso tra la consapevolezza che sempre meno persone hanno acquistato i loro dischi e la voglia di recuperare il proprio background. Stranger Things, la title-track, Who Can I Turn To, Only The Best Will Do sono canzoni glamour-pop eseguite con dedizione e leggerezza, antichi sapori Motown che incontrano l’eleganza dandy di Bryan Ferry. E’ il meglio che questo disco sa offrire, con la presenza di Paul Tubbs Johnson e Juliet Roberts (Working Week) come back-up vocals ed il recupero di archi e sassofono. Il resto riporta ad un noioso ripasso di ciò che furono How To Be A Zillionaire e Alphabet City senza acuti o emozioni particolari ma con accenni rock psichedelici che alla lunga risultano solo irritanti. Troppo poco per un revival del glam pop e troppo tardi, forse, per un ritorno alle origini.” (34)
Dopo il disco, a quindici anni di distanza dal primo e ultimo tour precedente degli ABC, Martin Fry ritornò ai concerti.  Dalle registrazioni del tour venne tratto il live, del 1999, The Lexicon Of Live.

Il nuovo millennio vide gli ABC (sigla dietro alla quale ormai si celava il solo Fry) impegnati a tenere vivo il ricordo dei loro fast andati. Nel 2001 andarono in tournée come spalla di Robin Williams, e nel 2005, cavalcando l’onda nostalgica nel ventennale del massimo successo della new-wave / dance anni ottanta, ritornarono in tour con Tony Hadley degli Spandau Ballet.
Nel 2004 si riunirono Fry e Palmer per un concerto dello show televisivo Band Reunited su VH1; nel 2006 i due andarono anche insieme in tourneé negli USA, mentre veniva annunciata la pubblicazione, per quell’anno, di un nuovo disco in studio (alcune delle canzoni erano già eseguite dagli ABC nel tour). Poi Martin Fry annunciò il rinvio all’anno successivo, a causa della necessità di completare alcune orchestrazioni, e rivelò che il disco si intitolava provvisoriamente Traffic, anche se, affermò “ho bisogno di un titolo ben più grandioso di quello” (42). Forse fu la ricerca di un altro nome, peraltro infruttuosa, ma il disco effettivamente uscì, come Traffic, solo nel 2008. 

Nel luglio del 2012 Martin Fry ha annunciato di essere pronto ad incidere un nuovo lavoro (40); la saga degli ABC potrebbe quindi continuare.

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Roberto Cappelli 

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Bibliografia:
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1.Fiato alle trombe! di Massimo Buda su Ciao 2001 no. 30 del 25 luglio 1982;

2.ABC di Giampiero Vigorito su Rockstar no. 24 del Settembre 1982;

3.Recensione di The Lexicon Of Love di Stefano Mannucci su Rockstar no. 24 del Settembre 1982;

4.Recensione di The Lexicon Of Love di Gianni Gabrielli su Mucchio Selvaggio no. 55 del Settembre 1982;

5.ABC, intervista con Martin Fry di Miss Alex su Rockstar no. 25 dell’Ottobre 1982;

6.L’ABC della nuova Inghilterra di Francesco Adinolfi su Ciao 2001 no. 52 del 26 dicembre 1982;

7.Profili di Dick Clark su Tuttifrutti no. 5 del Marzo 1983;

8.Sweat & Ice di Roy Trakin su Musician no. 53 del Marzo 1983;

9.A…B…C… Lessico d’amore di Chris Salewicz su Rockstar no. 31 dell’Aprile 1983;

10.ABC di Stefania Bochicchio su Tuttifrutti no. 15 del gennaio 1984;

11.Recensione di Beauty Stab di Davide Tenigli su Tuttifrutti no. 15 del gennaio 1984; 

12.Recensione di Beauty Stab di Enzo Gentile su Rockstar no. 40 del gennaio 1984;

13.Acrilica bellezza di Francesco Adinolfi su Ciao 2001 no. 8 del 20 febbraio 1984;

14. Recensione di Beauty Stab di Duncan Strauss su Record vol. 3, no. 5 del marzo 1984;

15.Cancel our subscription to the Club Tropicana di Jock Baird su Musician no. 65 del marzo 1984;

16.Recensione di How To Be A Zillionaire di Enrico Sisti su Rockstar no. 62 del novembre 1985;

17.La trappola del computer di Francesco Adinolfi e Piergiorgio Brunelli su Ciao 2001 no. 46 del 15 novembre 1985;

18. Recensione di How To Be A Zillionaire di Giampiero Cara su Ciao 2011 no. 48 del 29 novembre 1985;

19.Recensione di How To Be A Zillionaire di Pino Caffarelli Guzman su Music no. 74 del dicembre 1985;

20.Intelligently stupid music di Ira Robbins su Musician no. 86 del dicembre 1985;

21.ABC di Miss Alex su Rockstar no. 65 del Febbraio 1986;

22.L’archivio rock su Ciao 2001 no. 43 del 31 Ottobre 1986;

23.London calling su Ciao 2001 no. 43 del 21 Ottobre 1987;

24.Recensione di Alphabet City di Stefano Mannucci su Rockstar no. 87 del Dicembre 1987;

25.Robopop di Paolo Battigelli su Ciao 2001 no. 13 del 30 Marzo 1988;

26.ABC di Giampiero Vigorito su Rockstar no. 91 dell’Aprile 1988;

27.Recensione di Up! di Alex Righi su Rockstar no. 111 del Dicembre 1989;

28.Glamorous di Sasha Stojanovic su Music no. 140 del Settembre 1991;

29.Recensione di Abracadabra di Rosario Nesci su Ciao 2001 no. 41 del 15 Ottobre 1991;

30.Recensione di Abracadabra di Paolo De Bernardin su Rockstar no. 133 dell’Ottobre 1991;

31.Recensione di Abracadabra di Fabio De Luca su Velvet no. 10 dell’Ottobre 1991;

32.Magic moments, intervista di Cinzia Donati su Ciao 2001 no. 48 del 28 Novembre 1991;

33.File: Martin Fry su Vox del Febbraio 1995;

34.Recensione di Skyscraping di Fabio Nucci su Rockstar del Luglio 1997;

35.Enciclopedia del Rock Arcana, Roma, 2009;

36.The New Rolling Stone Album Guide, Fireside, New York, 2004;

37. Rock, the Rough Guide, Rough Guides, Londra, 1996;

38.Il Rock E’ Finito di Simon Frith, EDT, Torino, 1990;

39.Post-Punk di Simon Reynolds, ISBN, Milano, 2006;

40.Voce “ABC” su Wikipedia, @ http://en.wikipedia.org/wiki/ABC_(band)

41. Vice Versa – 8 Aspects Of, @ http://www.headheritage.co.uk/unsung/review/2026/

42.Still as good as the very first time, livewire’s one on one, @ http://www.concertlivewire.com/interviews/abcint.htm

​43.    Recensione della ristampa deluxe di The Lexicon Of Love di John Harris su Mojo no. 133 del Dicembre 2004;
44.    Recensione della ristampa deluxe di The Lexicon Of Love di Daniele Cassandro su Rockstar no. 295 del Marzo 2005.

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