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AC/DC: storia e discografia

GLI ESORDI

 

William Young era stato meccanico nella RAF (l’aeronautica militare inglese) durante la guerra e poi operaio in fabbrica, reparto verniciatura a spruzzo.  Con la sua folta famiglia, otto figli, viveva a Cranhill, un sobborgo popolare a est di Glasgow.  Quando aveva solo quaranta anni rimase disoccupato e nel 1963 decise di emigrare in Australia approfittando di un sussidio pubblico, l’Assisted Package Scheme, che consentiva di imbarcarsi al modico costo di 10 sterline a passeggero.

 

Tra gli otto ragazzi che si imbarcarono con i genitori c’erano anche Malcolm, nato il giorno dell’Epifania del 1953, e Angus, il più piccolo, venuto alla luce il 31 marzo del 1955.  La famiglia Young, dopo aver trascorso un difficile periodo in un degradato centro di accoglienza (certe cose non cambiano mai…) si stabilì a Burwood, un quartiere periferico di Sidney.

 

Nei fratelli Young i geni musicali erano stati distribuiti con generosità; molto prima che Angus e Malcolm impugnassero una chitarra, quando ancora vivevano in Scozia, un loro fratello maggiore, Alex aveva suonato con Tony Sheridan e in vari gruppi, tra i quali i Grapefruit, che furono il primo complesso messo sotto contratto dalla Apple; per l’occasione John Lennon lo aveva ribattezzato George Alexander.

 

Ancora più notevole fu l’epopea di un altro fratello, George, che in Australia insieme a due amici, uno olandese, Johannes Vandeberg, che George spinse a prendere il nome Harry Vanda, e l’altro inglese, Stevie Wright, fondò una band chiamandola Easybeats.  Il gruppo divenne un fenomeno in Australia, inanellando canzoni di successo (She’s So Fine, For My Woman, Good Times, ma soprattutto Friday On My Mind, che raggiunse il sesto posto nelle classifiche UK e ebbe anche l’onore di una cover dell’immenso David Bowie su Pin-Ups) e scatenando una vera e propria idolatria tra i giovani (era l’epoca in cui i Beatles avevano stabilito il paradigma dello star system musicale giovanile e gli Easybeats erano i Beatles australiani).

 

Le loro canzoni ebbero un discreto successo anche in USA e Inghilterra e gli Easybeats si trasferirono a Londra, dove rimasero fino a quando il loro successo andò scemando, non senza aver prima pubblicato tre album (Good Friday nel 1967, Vigil nel 1968 e Friends nel 1970).  All’inizio degli anni settanta il gruppo si sciolse: George, insieme all’altro leader degli Easybeats, Harry Vanda, provò a rimanere in UK per fare il produttore, ma con scarso successo. Successo che nella nuova veste di produttori invece gli arrise quando, nel 1973, tornarono a Sidney; conclusero un accordo con il principale discografico australiano, Ted Albert e, mettendo a frutto l’esperienza maturata in Europa, Vanda & Young diventarono la più attiva fabbrica di successi australiana (venti singoli e diciotto album in classifica nei soli anni settanta).

 

Mentre la parabola di George nel firmamento musicale si compiva, Malcolm e Angus frequentavano la Ashfield Boys High School di Sidney, mettendosi in mostra, più che per gli scarsi successi scolastici, per la passione con la quale menavano le mani ogni volta che se ne presentava l’occasione; ma certo non potevano restare indifferenti al successo che per qualche tempo aveva avuto il fratello maggiore. Molti anni dopo Angus, intervistato da Guitar Player, avrebbe ricordato: “Fu sicuramente una fonte di ispirazione. C’era un sacco di roba che veniva da quella band; furono i precursori di un sacco di cose. Io e Mal venivamo tenuti lontani da loro. A scuola ti disapprovavano, perchè ovviamente tuo fratello o la tua famiglia erano un esempio di ribellione. I miei genitori pensavano che fosse meglio che facessimo altro.” (1)

 

Più ancora di Malcolm, era Angus ad essersi messo sulle orme di George: era ossessionato dalla musica, alla quale dedicava tutto il tempo libero e forse anche una buona parte di quello che libero non avrebbe dovuto essere, tanto che a 15 anni fu espulso dalla scuola: “Le cose che sentivo da piccolo, soprattutto dai dischi che mettevano due miei fratelli, erano più o meno Chuck Berry e Little Richard, e direi che Chuck Berry era quello da cui prendevo sempre le parti di chitarra. Uno dei miei fratelli maggiori, Alex, mi insegnò un paio di fraseggi e probabilmente è stata l’unica lezione di chitarra che ho preso davvero!” (3)

 

Anche Malcolm aveva lasciato la scuola due anni prima, andando a lavorare alla manutenzione di macchine da cucire in una fabbrica di reggiseni, mentre Angus trovò un impiego come compositore tipografico ed in parallelo entrambi coltivavano la loro passione per la musica. La loro prima volta in studio fu con la Marcus Hook Roll Band, gruppo formato da George e Harry Vanda dopo lo scioglimento degli Easybeats, per il loro album Tales Of Old Grandaddy.

 

Malcolm cominciò come chitarra solista in un gruppo che nel tempo assunse diverse identità (Red House, Rubberband, Beelzebub Blues); più a lungo durò la militanza in un’altra band chiamata Velvet Underground (non “quei” Velvet Underground) che faceva soprattutto cover di blues bianco britannico e prima di sciogliersi mutò nome in Pony, in omaggio ad una canzone dei Free (Ride On Pony) che suonavano in concerto.  In quel periodo Malcolm era in fissa con Marc Bolan.

 

Il primo gruppo di Angus, invece, furono i Kentuckee (pare in omaggio alla grande passione di Angus per il pollo fritto della catena di ristoranti Kentucky Fried Chicken), che avevano già un suono molto duro ed eseguivano soprattutto cover dei gruppi preferiti di Angus (Deep Purple, Cactus, Mountain). Allo scioglimento dei Kentuckee Malcolm, che aveva da poco costituito il primo nucleo di quelli che sarebbero divenuti gli AC/DC, lo invitò ad entrare nella band; gesto generoso, perché non poteva ignorare che il fratello avrebbe oscurato il suo ruolo di primo chitarrista.

 

Appassionate dispute filologiche si sono accese intorno alla genesi del nome AC/DC; la ormai prevalente opinione fa risalire l’ispirazione ad una scritta dietro la macchina da cucire (o forse un’aspirapolvere) della sorella Margaret (o forse della moglie di George). Non è chiaro se fossero consapevoli che il termine veniva usato anche per connotare tendenze bisessuali: alla luce del machismo che ha contrassegnato la loro musica direi che l’allusione non era voluta, ma è anche vero che all’epoca la bisessualità era molto cool nel mondo del rock.

 

Sia come sia, la prima formazione degli AC/DC vedeva Malcolm e Angus alla chitarra, Dave Evans alla voce, Larry Van Kriedt al basso e Colin Burgess (reduce dallo scioglimento dei Master Apprentices) alla batteria. Debuttarono al Chequers di Sidney la notte di capodanno del 1973 ottenendo subito un ottimo riscontro. All’epoca eseguivano principalmente canzoni altrui (anche Get Back dei Beatles) e solo un paio di canzoni loro, ma la miscela musicale era già quella che, con minime variazioni, li avrebbe accompagnati lungo tutto l’arco della loro carriera: rock’n’roll duro, potente e a volume altissimo. In questa composizione a gennaio del 1974 registrarono il loro primo singolo, Can I Sit Next To You Girl, ma ben presto la sezione ritmica venne sostituita dal bassista Neil Smith e dal batterista Noel Taylor, che tuttavia durarono solo sei settimane, a loro volta avvicendati da Rob Bailey al basso e Peter Clack, provenienti dai Train, alla batteria.

 

Anche questa vorticosa turnazione era un’anticipazione di quello che sarebbe accaduto in futuro: i fratelli Young sarebbero stati gli unici punti fermi del gruppo, Malcolm come leader e Angus come front-man. Ma in questa fase di decollo anche un terzo fratello, George, ebbe un ruolo importante, come ricorda Chris Gilbey, direttore artistico della Albert Production: “Credo che all’inizio George avesse un influsso sugli AC/DC molto più determinante di qualsiasi altro membro della band, perché George era il fratello maggiore ed era stato negli Easybeats, era pratico del mestiere, era stato in Inghilterra, aveva fatto dischi di successo. Credo che abbia trasmesso un’etica molto forte per quanto riguarda il funzionamento dell’industria discografica, la natura della musica e la necessità di restare fedeli alle radici.” (3)

 

Il manager lo trovarono, in Dennis Laughlin, dopo un concerto come opening act di Stevie Wright (ex cantante degli Easybeats) alla Sidney Opera House a maggio del 1974.  Subito dopo firmarono per la Albert Production (distribuzione EMI) e il singolo registrato a gennaio venne pubblicato il 22 luglio (lato B: Rockin’ In The Parlour), riscuotendo grande successo in Australia. Nell’agosto del 1974 aprirono anche per Lou Reed e più o meno in quel periodo ci fu un mutamento di ruoli decisivo: inizialmente Angus e Malcolm si alternavano nel ruolo di chitarra solista; fu lo stesso Malcolm a decidere di lasciare la solista al fratello e dedicarsi alla ritmica, con motivazioni inconfutabili: “Se faccio assoli nei concerti non riesco a bere” (2).

 

Risale a quel periodo anche una delle caratteristiche distintive degli AC/DC, ossia la divisa della sua scuola indossata da Angus nei concerti: cominciò quando Malcolm ebbe l’idea, mutuata dal glam, di salire sul palco in costumi tutti diversi.  Fu la sorella Margaret, che lo aveva visto suonare la chitarra appena tornato da scuola, con la divisa ancora indosso, milioni di volte, a spingerlo in quella direzione.  “All’inizio l’uniforme doveva essere una cosa da una sera e via. Il batterista del mio gruppo precedente mi convinse a fare qualcosa di scandaloso, così mi sono vestito da scolaretto. L’idea era quella di trasformarmi in un virtuoso della chitarra di nove anni che avrebbe fatto un solo concerto, messo tutti ko, per poi tornare nell’oscurità. Sarei diventato una leggenda. Ma poi ho continuato a farlo. Ora… beh, mi tocca tenermela.” (Circus, 1982).  Tutti i componenti del gruppo dell’epoca, comunque concordano che con l’uniforme indosso Angus cambiò completamente atteggiamento, scatenandosi sul palco mentre prima suonava quasi da fermo: forse era perché si sentiva meno esposto in prima persona, forse perché doveva far dimenticare di essere vestito in modo tanto ridicolo, fatto sta che l’Angus adrenalinico che ben si conosce nacque allora.  In un’altra intervista del 1984 (36) Angus disse: “Mi aiuta ad entrare nel personaggio sul palcoscenico. Se mi limitassi a stare lì e suonare sarei del tutto inutile, un sacco di gente ama mascherarsi e andare alle feste” e quando l’intervistatore lanciò un paragone con Gene Simmons dei Kiss fu Malcolm a reagire: “Angus indossa la sua uniforme da scolaro in circa cinque minuti prima dello spettacolo, Gene Simmons ci mette tre ore a farsi il suo fottuto trucco. E ha dei fottuti stivali alti così. C’è un po’ di differenza, davvero!”

 

In autunno nuovo cambiamento nella formazione, questa volta di capitale importanza per il futuro della band. Malcolm entra in rotta di collisione con Dave Evans (secondo Dave, perché Malcolm era invidioso, secondo Malcolm perché Dave era ridicolmente preoccupato della sua immagine) e il cantante viene sostituito da Ronald Belford Scott, detto Bon, anche lui scozzese, nato a Forfar Kirriemuir (il paese natale di John Barrie!) il 9 luglio 1946, emigrato in Australia, a Melbourne, nel 1952, e successivamente trasferitosi a Fremantle, vicino a Perth.

 

Bon era molto più anziano dei fratelli Young (aveva 28 anni, 9 più di Malcolm), dotato di grande personalità e presenza scenica ed era stato piuttosto scapestrato (nel 1961 lasciò la scuola, nel 1963 trascorse nove mesi in un riformatorio), anche se tutte le fonti convergono nel sottolineare che avesse una certa bontà di fondo, un tratto scanzonato e autoironico che temperava la sua propensione per l’alcool, la droga e le risse.  Prime esperienze musicali, come batterista e cantante, negli Spektors, che poi si fusero con la loro band rivale a Perth (i Winztons) e diventano Valentines.  I Valentines ottennero un crescente successo. Una loro cover di un brano di Arthur Alexander, Every Day I Have To Cry arrivò al quinto posto nella classifica dell’Australia Occidentale (sul lato A Bon suonava solo la batteria, mentre era voce solista sul lato B, I Can’t Dance With You, cover degli Small Faces) e nel 1967 giunsero ad aprire due concerti degli Easybeats, che erano all’apice del loro successo, a Sidney.  Con gli Easybeats maturarono un rapporto di amicizia che si tradusse anche in una melensa canzoncina, She Said, composta dagli Easybeats per i Valentines (nella quale Bon suonava il flauto!); gliene regaleranno, nel tempo, altre due.  Dopo essersi trasferiti a Melbourne e aver fatto un po’ di gavetta, si imposero a livello nazionale e per alcuni anni risultarono una band di successo con un pop leggero venato di psichedelia, molto lontano dalla loro vera natura.  In mezzo, un arresto per possesso di marijuana, a seguito del quale incominciarono a subire qualche ostracismo dalla stampa, ma senza contraccolpi presso il pubblico. Si trasferirono a Sidney e infine si sciolsero nel 1970.  Finita l’esperienza con i Valentines Bon entrò nei Fraternity, popolare band hippie australiana, completamente immersa nella cultura lisergica, nella quale cantava e, occasionalmente, suonava il flauto dolce (!); il gruppo pubblicò due dischi (Livestock e Flaming Galah) e aprì i concerti australiani di grandi artisti come Black Sabbath, Deep Purple, Free, Jerry Lee Lewis.  Nel 1972 Bon si sposò (la moglie si chiamava Irene) e i Fraternity cercarono fortuna trasferendosi in Inghilterra, ma non la trovarono, neanche cambiando nome in Fang, e a Natale del 1973 la band si sciolse.

Bon fece ritorno in Australia dove trovò impiego in una fabbrica di fertilizzanti a Wallaroo, nei dintorni di Adelaide, e intanto prese parte ad un collettivo aperto di musicisti animato dal vecchio amico Peter Head chiamato The Mount Lofty Rangers con i quali fece una dozzina di concerti, compose un paio di brani (ballate!), intitolati Clarissa e I’ve Been Up On The Hills Too Long, e incise un paio di canzoni dei Rangers (Round and Round e Carey Gully) che saranno ritrovate e pubblicate una prima volta nel 1996 e poi ancora nel 2014.  A maggio del 1974 Bon ebbe un grave incidente di moto (era completamente ubriaco) che lo tenne per tre giorni in coma.  Uscito dall’ospedale, essendosi separato da Irene, trascorse la convalescenza dall’amico Vince Lovegrove, un promoter musicale che proprio in quei giorni stava organizzando i concerti ad Adelaide degli AC/DC, i quali erano alla ricerca di un cantante per sostituire Dave Evans, ancora con loro ma ormai di fatto fuori dal gruppo.

 

Un cantante anzianotto (rispetto a loro), hippy e con le stampelle non era proprio quello che il gruppo immaginava di volere; e, d’altro canto, il primigenio rock’n’roll degli AC/DC doveva sembrare a Bon una retrocessione rispetto ai più sofisticati generi musicali frequentati con i Fraternity (progressive) e i Rangers (che svariavano dal country al blues al jazz). Ma il provino andò bene e alla fine gli AC/DC gli proposero di unirsi a loro.  Il primo concerto ufficiale con Bon come cantante fu a Sidney, alla Rockdale Masonic Hall, il 5 ottobre 1974.

 

Bon fece fare agli AC/DC il decisivo salto di qualità che avrebbe consentito alla band di affrontare una carriera musicale professionale, come onestamente riconobbe Malcolm: “Quando è arrivato Bon ci ha fatto unire le forze. Il suo atteggiamento era: ‘adesso gliela facciamo vedere’. Ce l’avevamo tutti dentro, ma Bon l’ha fatto venire fuori.” (2). Quanto a Bon, è rimasta celebre la sua fulminante risposta quando gli chiesero scherzosamente se lui era AC o DC, rispose: “Né l’uno, né l’altro, io sono il lampo in mezzo.”  Come accade alle migliori battute, quella di Bon celava un fondo di verità: fu un importante elemento equilibratore per gli AC/DC, stretto tra le prorompenti personalità dei fratelli Young, senza perdere la propria individualità.

 

Prima della registrazione del primo disco ci fu tempo per un ultimo cambiamento, forse meno appariscente per i fan del gruppo, ma di grande importanza per lo sviluppo della band: il manager Dennis Laughlin fu sostituito dall’esperto Michael Browning, che per iniziare impose il trasferimento della band a Melbourne, città all’epoca con una scena musicale più vivace di Sidney, e ne stabilizzò le finanze.  A Melbourne andarono a vivere a St. Kilda, il quartiere a luci rosse (e dove sennò?), stabilendo un solido rapporto con una casa di tolleranza locale.

 

A gennaio del 1975 furono invitati al Sunbury Festival, che si svolgeva nelle vicinanze di Melbourne, davanti a 45.000 persone, accorse soprattutto per vedere gli headliner Deep Purple: invece di suonare provocarono una bella rissa sul palcoscenico con la crew del gruppo inglese e se ne andarono...

 

 

1975 - HIGH VOLTAGE (AUS)

 

Il disco d’esordio degli AC/DC è, per i fan e per la storia, il disco della confusione.  A cominciare dall’atmosfera - che tutti riportano come, appunto, confusa - che regnò durante la registrazione, portata a termine in soli dieci giorni nel novembre del 1974.  Lo riconobbero anche loro, come emerge da un’intervista rilasciata da Malcolm al magazine Metal nel 1992: “A quel tempo non entravamo mai in studio con qualcosa di più di un riff. In realtà, pensavamo che un riff fosse una canzone. Per fortuna avevamo i produttori che li trasformavano in canzoni. All’epoca non sapevamo davvero fare di meglio” (1)

 

La confusione, del resto, si estendeva alla formazione che ha contribuito alla registrazione del disco. In quel periodo basso e batteria erano ancora, formalmente, appannaggio di Rob Bailey e Peter Clack, ma le note di copertina dell’album accreditano come sezione ritmica Phil Rudd (bt) e Mark Evans (bs); in realtà, stando a quanto riportato da Susan Masino nella biografia (da fan) da essa scritta sugli AC/DC (1), Rudd sarebbe stato cooptato all’inizio del 75 e Evans addirittura solo dieci giorni prima dell’uscita del disco (febbraio 75), quindi entrambi ben dopo la registrazione. Dal canto suo un altro biografo del gruppo, Murray Engleheart (3), data l’arrivo di Evans addirittura al 16 marzo 1975, successivamente all’uscita del disco, dopo che per qualche settimana il basso era stato affidato a Paul Matters, poi rapidamente giubilato.  Quale era, dunque, la sezione ritmica che ha prodotto il disco d’esordio degli australiani?  Sembra che in molti casi al basso e anche, spesso, dietro alla batteria, ci fosse George Young; e che altri turnisti si siano avvicendati, per la batteria soprattutto Tony Currenti, dei 69ers, e Russell Coleman, batterista di Stevie Wright.

 

Comunque fosse, Phil Rudd e Mark Evans erano destinati a stabilizzarsi come titolari dei due strumenti nel line-up degli AC/DC: Rudd era stato il batterista dei Buster Brown, band skinhead il cui cantante era Gary Anderson (poi nei Rose Tattoo) con la quale aveva pubblicato un disco nel 1974 (Something To Say). Mark Evans aveva una limitata esperienza in band dilettantistiche e all’epoca era impiegato al Ministero delle Poste, ma era alto un metro e sessantasette, cosa che lo omologava a Malcolm, Angus e Bon, tutti di non alta statura. Non era facile trovare bassisti di quelle dimensioni…

 

Ma anche il disco non è risparmiato dalla confusione, perché alcuni anni dopo, quando furono scritturati dalla Atlantic, la nuova casa discografica decise di pubblicare un compendio dei loro primi due dischi, che erano usciti solo in Australia, e con assoluto sprezzo dei fan presenti e futuri del gruppo lo intitolò High Voltage, come il lavoro d’esordio.  Molto probabile che se avete acquistato il disco in Italia sia questa la versione in vostro possesso e non il disco di cui stiamo parlando, oggi di difficile e costosa reperibilità. Per ulteriormente complicare la vita a chi si accinga a ricostruire la discografia del gruppo, va segnalato che la canzone High Voltage non era inclusa nel disco, ma fu pubblicata come singolo successivamente alla sua uscita, con l’obiettivo, perfettamente centrato, di rianimare le vendite del LP.

 

High Voltage era, nel complesso, una prova ancora acerba, nella quale l’identità degli AC/DC, sebbene saldamente radicata nell’hard rock inglese di derivazione blues degli anni settanta, risultava ancora sfocata. Ma pochi dubbi ci potevano essere, dopo averlo ascoltato, riguardo alla chitarra di Angus, tagliente, precisa ed onnipresente a galvanizzare anche i brani di minore impatto.

 

Vale la pena di segnalare Baby Please Don’t Go, cover di Big Bill Bronzy, con delle insolite chitarre sottili (forse perché in sede di missaggio il brano fu accelerato) e un’ottima performance vocale di Bon, che nel finale dialoga con la chitarra su di una ritmica fissa (citazione di Made In Japan dei Deep Purple); fu pubblicata come lato b del primo singolo (Love Song, una vecchia canzone degli AC/DC che in origine si intitolava Fell In Love, e di cui Bon aveva riscritto il testo di Dave Evans), ma ebbe più successo del lato a, finendo per rimanere in classifica in Australia per 25 settimane. Buone anche She’s Got Balls, dedicata a Irene, la ex-moglie di Bon Scott (non bonariamente…) costruita su di una base ritmica monocorde, sulla quale si esercitano gli assoli di Angus e quelli vocali di Bon; Soul Stripper, che ha una lunga intro strumentale in stile gruppo hard anni settanta (quali, in effetti, gli AC/DC erano) e poi incede su ritmi energici ma non frenetici. Love Song una sofferta ballata (!) fuori dai loro schemi, ma interessante e la finale Show Business, anche se non è un pezzo dei migliori, con il suo rock'n'roll indurito, sembra prefigurare le strade che saranno imboccate dal gruppo con i dischi successivi; entrambi questi brani erano stati già suonati in concerto dagli AC/DC con testo e titolo diverso, ai tempi di Dave Evans (che di quei testi era l’autore).

 

In patria l’album ebbe un subitaneo successo, a fine giugno era già disco d’oro e alla fine del 1975 aveva venduto 150.000 copie (triplo disco d’oro). Gli AC/DC alimentavano l’interesse che li circondava suonando moltissimo dal vivo e con frequenti apparizioni televisive, specie in una trasmissione molto seguita in Australia che si chiamava Countdown, nella quale apparvero ben 38 volte in due anni.  Proprio ad una di queste occasioni risale la celebre apparizione di Bon Scott travestito da scolaretta, con tanto di trecce bionde e seno procace: colse di sorpresa anche i suoi compagni, che non erano stati preavvertiti, con effetti esilaranti.

 

All’interno della band i diversi componenti andavano assumendo i loro ruoli: Bon Scott aveva grossi problemi di droga e alcol, ma era dotato di un suo grezzo fascino, simpatico e alla mano. Al fondo, probabilmente, era solo fragile e, come abbiamo visto, spesso imprevedibile, anche per gli altri membri della band. Michael Browning disse che Bon era “decadente e pazzo per il sesso, ma più poetico, più intellettuale, dai gusti più sofisticati degli altri”. (2) Come rilevava lo stesso Browning, già allora il leader della band era Malcolm: “Era lui che pensava per conto degli altri. Bastava che lo accettassero” (2). Angus invece, in stridente contrasto con la sua immagine scatenata sul palco, nella vita privata era il più morigerato: non beveva alcol, non passava il suo tempo a fare sesso con le groupies, preferiva stare a casa a guardare film o allenarsi alla chitarra. E in fondo non era neanche tanto un duro, come confessò in un’intervista a Guitarist all’inizio degli anni ’90: “Sul palco cercavo di sembrare più duro che potevo. M’infilavo una sigaretta in bocca, salivo sul palco, la schiacciavo a terra e speravo che nessuno scoprisse il bluff!” (3)

 

Del resto, anche come gruppo, in quel periodo gli AC/DC erano alla ricerca di un’identità. Nel 1975, raccogliendo echi che arrivavano dalla terra dei canguri, sia Rolling Stone che RAM li definirono un gruppo punk: è vero che in quel periodo, in cui il fenomeno punk stava esplodendo, un po’ tutti i gruppi giovani venivano frettolosamente etichettati in quel modo (persino i Dire Straits subirono tale sorte alla pubblicazione del primo disco) ed è vero anche che la natura violenta e provocatoria degli AC/DC si prestava all’equivoco, ma in qualche modo contribuiva anche l’immagine ancora sfocata del gruppo. Il secondo album, registrato e pubblicato prima che finisse quel seminale 1975, avrebbe aiutato a definirla.

 

1975 – T.N.T.

 

Grande importanza nella fase di registrazione del sequel di High Voltage rivestì il fratello maggiore di Malcolm e Angus, George Young: sia nella fase tecnica (“George raffinava le cose. E’ un genio assoluto, non ho mai incontrato una persona più abile di George in studio” Mark Evans, 1), sia sotto il profilo del supporto psicologico – figura paterna, più che fraterna – e negli arrangiamenti.  L’aria di famiglia era completata da Sammy Horsburgh, ex tour manager degli Easybeats, che aveva sposato Margaret, sorella dei tre Young.

 

T.N.T. fu registrato negli Albert Studios che si trovavano in Boomerang House, King Street a Sidney, nei quali George era di casa.  Il titolo fu mutuato dalla risposta che Angus soleva dare alla domanda “come stai?”: “I’m TNT, I’m dynamite”.  Per non smentire le passioni del gruppo, la confezione promozionale per i giornalisti era avvolta in un paio di mutandine da donna…

 

T.N.T. non è ancora all’altezza dei migliori dischi degli AC/DC, ma ospita alcuni brani decisamente notevoli e senza dubbio fa compiere un passo decisivo verso la delineazione della loro personalità musicale, come sottolineò Harry Vanda, che con George Young lo produsse: “Penso che nel primo album ci potessero essere un paio di brani, alcune cose, che stavano sperimentando, che probabilmente più avanti non avrebbero più fatto. Perciò si può dire forse che T.N.T. sia stato quello che ha tirato fuori l’identità, del tipo: questi sono gli AC/DC, non c’è dubbio, questi saranno e così resteranno. Una volta che hai un’identità sai anche cosa non fare” (Harry Vanda, 3).

 

Tra le canzoni da tramandare c’è sicuramente It’s A Long Way To The Top, un tiratissimo rock con accompagnamento di cornamuse che sottolinea la discendenza scozzese dei fratelli Young; fu il primo singolo che venne tratto dall’album, accompagnato anche da un video, e il primo loro 45 ad entrare nella top 5 australiana.  Come ricordò molti anni dopo Mark Evans “Il brano non fu mai suonato tutto intero in studio. Venne montato incollando varie parti di una lunga jam session. Fu un’idea di George Young, quell’uomo è un genio!” (3)  E Malcolm confermò, in un’intervista, la curiosa genesi del brano: “Live Wire e It’s A Long Way To The Top sono nate insieme in studio. A quei tempi quando suonavamo dal vivo facevamo molte jam sul palco perchè avevamo poco materiale originale. Suonavamo Jumpin’ Jack Flash e ci buttavamo 15 minuti di cazzate così da riempire il nostro set da 40 minuti. I riff di Live Wire e It’s A Long Way To The Top vengono da quelle jam.” (101)

 

In effetti le caratteristiche da jam session sono molto evidenti in Live Wire, molto ritmata, con Angus sempre sugli scudi. She’s Got The Jack è invece un blues bianco e duro con un magnifico, pensoso e meno scatenato del solito assolo di Angus; il brano allude alle malattie veneree (gergalmente chiamate “the jack” in Australia) che, a quanto pare, erano un problema endemico per il gruppo (Angus, scherzando, diceva che le avevano prese talmente tante volte che all’ospedale gli facevano lo sconto comitiva). Rock’n’Roll Singer è un classicissimo hard rock con le chitarre taglienti e Bon in gran forma; il riff di questo brano è stato usato dai Cult più di dieci anni dopo in Wild Flower. Can I Sit Next To You Girl appartiene più al filone teen metal, più conformista nella struttura, ma sempre trascinante.  Infine, da segnalare il singolo High Voltage, che era stato pubblicato qualche mese prima con grande successo ma non faceva parte della edizione originale dell’omonimo album, sulla genesi del quale raccontò Angus: “Ero a casa che arpeggiavo sulla chitarra quando mi venne in mente che avrei potuto tirare fuori una canzone da un riff con le corde A-C-D-C. Ho provato e suonava bene.” (68)

 

Dall’album vennero tratti altri due singoli: T.N.T., con Rocker (poco significativa sul disco, ma cavallo di battaglia di Angus che, dal vivo, la dilatava ad oltre dieci minuti) sul lato B, e Jailbreak, con Fling Thing – tradizionale scozzese inedito sugli album - come lato B.

 

All’uscita l’lp ricevette un’ottima accoglienza: vendette 11mila copie la prima settimana e salì direttamente al secondo posto nella classifica (dietro ad un monumento come Desire di Bob Dylan), per poi arrivare al primo. Nel primo anno le vendite di T.N.T. raggiunsero le trecentomila copie, ma gli AC/DC non si arricchirono: il successo del disco fruttò loro poco più di 50.000 dollari da dividere tra i componenti del gruppo e il loro manager.

 

Tuttavia T.N.T. destò l’attenzione delle major, indispensabile per cercare il successo internazionale, e li portò a firmare un contratto con la Atlantic; contratto per un disco, con opzione su quelli successivi (numero imprecisato, c’è chi dice cinque, chi dodici, chi quindici…).  Non un contratto sontuoso, ma importante per le opportunità che apriva.

 

1976 – DIRTY DEEDS DONE DIRT CHEAP

 

La registrazione di Dirty Deeds Done Dirt Cheap, terzo disco degli AC/DC, fu abbastanza frettolosa: le prime nove canzoni vennero registrate già a febbraio del 1976, ma il gruppo era sempre in giro per concerti e si dovettero accontentare dei ritagli di tempo, come tempo dopo ricordò Malcolm: “Non avevamo molto tempo per registrare quel disco, dopo High Voltage eravamo stati costantemente in tournèe, poi firmammo gli accordi che ci fecero trasferire a Londra e quando avevamo appena finito il tour ci dissero che avremmo dovuto registrare un altro album. Tutto quello che facemmo fu andare dritti in studio e buttare lì qualche nuova idea.” (Malcolm, 101)

 

Il curioso titolo del disco era ispirato ad un cartone animato chiamato Beany And Cecil, l’espressione compariva sul biglietto da visita del personaggio negativo, Dishonest John.

 

Anche in questo caso la versione australiana del disco, uscita a settembre del 1976, è diversa da quella europea, pubblicata due mesi dopo con una copertina (più bella di quella originale) ideata dalla pluri-premiata Hipgnosis e con due brani (RIP e Jailbreak) sostituiti in corsa da Rocker (già pubblicato su T.N.T.) e Love At First Feel.

 

L’album si iscrive nel solco tracciato da T.N.T., sia sotto il profilo musicale, sia sotto quello qualitativo. Del resto all’epoca per gli AC/DC i dischi erano funzionali all’attività dal vivo, il che implicava una minore attenzione alla fase compositiva: “Il modo in cui lavoravamo, specie per i primi album, era proprio questo: scrivevamo canzoni per riempire la scaletta dei concerti, non per i dischi. Se ci rendevamo conto che ci servivano cinque canzoni vivaci per far contento il pubblico le scrivevamo per suonarle dal vivo, non per metterle nel prossimo disco.” (Malcolm, 2)

 

Ne scaturisce un buon disco, da sufficienza ampia, come sempre carico di energia, ma che curiosamente trova la sua massima espressione con un brano atipico, una ballata (!) intitolata Ride On, all’altezza di alcune delle splendide ballad dei Rolling Stones alle quali sembra ispirata e che non a caso ha suscitato grandi amori in diversi critici, che, anche con un po’ di enfasi, hanno scritto cose come: “Dirty Deeds è un disco fantastico, probabilmente il migliore di Scott con gli AC/DC. Questo giudizio si incardina su di una canzone che è atipica nel repertorio della band: Ride On, la più bella ballata bluesy che vi capiterà di sentire nella vita. Gli AC/DC riprendono il loro normale servizio con la lacerante title track e la maliziosa Problem Child. Ma dopo la morte di Bon Scott nel febbraio del 1980, il desolato e penetrante spirito incarnato da Ride On ha assunto nuovi significati. E questo è il motivo per cui Dirty Deeds sarà sempre ricordato per quella particolare canzone.” (Geoff Barton, 94); o anche: “ma la migliore di tutte è un blues sorprendentemente dolce, Ride On, con i suoi versi tristi che parlano di bottiglie vuote e letti vuoti che compongono l’immagine del cantante, con un’apparenza spettacolare ma altrettanto vuoto dentro. (…) Ride On basta da solo ad elevare Dirty Deeds Done Dirt Cheap al di sopra dei suoi predecessori.” (Mick Wall, 2)

 

E tra i fan della prima ora degli AC/DC ce n’è anche uno d’eccezione: lo scrittore Stephen King, che usa molte citazioni da Dirty Deeds nel suo libro Scheletri.

 

Tra le canzoni degne di nota va ricordata la title track, molto bella e ruffiana con un suono netto e profondo e con la sezione ritmica in bella evidenza; tra l’altro nella canzone compare un numero di telefono (36 24 36) che, per uno di quei corto circuiti che ogni tanto si creano tra le band e i loro fan, numerosi appassionati del gruppo si precipitarono a comporre in tutte le città del mondo, cosa che guadagnò una causa da parte di una famiglia di Chicago, esasperata dal diluvio di chiamate poco ortodosse ricevute (3).  E pensare che invece il numero evocava quelle che, secondo la più diffusa opinione machista, condivisa da Angus, sono le misure ideali (circonferenza seno, vita e fianchi) del corpo femminile, rese in pollici…

 

Problem Child sembra assestarsi sul più classico schema heavy metal, grazie alla sferragliante chitarra ritmica di Malcolm e un ritornello piuttosto convenzionale, ma poi gli assoli di Angus aprono prospettive inaspettate per una canzone che pare fosse ispirata ai passati problemi con la giustizia di Bon; ed è sempre Angus a marchiare i brani più interessanti, come There’s Gonna Be Some Rockin’, un r’n’r strascicato punteggiato dai suoi ricami chitarristici, e Squealer, altro esempio del suo virtuosismo nel quale anche la voce di Bon sembra fare da tappeto ritmico per le evoluzioni del minuscolo folletto australiano.

 

Come abbiamo visto, la produzione del disco, dei dischi in generale, era nettamente subordinata alla attività live che per tutto il 1976 era stata molto intensa. In primavera erano stati scritturati per un tour inglese come supporto dei Back Street Crawler di Paul Kossoff (ex-chitarra dei Free), ma quando arrivarono in Europa nell’aprile del 1976 Kossoff morì per overdose; l’accorato necrologio di Bon Scott fu il seguente: “Quello stronzo di Kossoff ha mandato a puttane il nostro primo tour. Aspettate solo che Angus gli metta le mani addosso.” (1)  In coincidenza con il loro arrivo la Atlantic pubblicò il singolo It’s A Long Way To The Top e la già descritta versione di High Voltage che è, in realtà, T.N.T. con due pezzi del primo disco.

 

Intanto i loro dischi cominciavano a circolare anche negli USA, ma non fu propriamente una marcia trionfale. Rolling Stone scrisse: con “questi disgustosi australiani” l’hard rock ha “toccato il fondo” (1); e la critica inglese non fu più tenera, se è vero che Chris Welch, alludendo al vestito di scena del più giovane dei fratelli Young, sul Melody Maker scrisse “Mi piacerebbe molto appendere Angus ad un lampione per i ganci della sua cartella” (28). Peraltro, in quel periodo, al fine di creare curiosità intorno al gruppo, Angus veniva contrabbandato per diciassettenne anche se aveva in realtà 21 anni.

Il primo concerto in terra inglese fu un doppio set in uno scalcagnato pub di West London, il Red Cow: al set pomeridiano c’erano solo una trentina di avventori, ma le sette canzoni suonate dal gruppo suscitano una certa impressione e grazie al passaparola la sera il pub era stracolmo (94). Da lì partì il leggendario primo tour inglese, il “Lock Up Your Daughters” tour. Gli AC/DC, tra l’altro, fecero nove date al Marquee di Londra tra luglio e agosto, alcune delle quali come headliner, altre come spalla dei Back Street Crawler senza Kossoff, registrando regolarmente il tutto esaurito e oltre. Ad agosto suonarono (male) al Festival di Reading davanti a 50.000 persone. A settembre la band era in tour in Europa (Francia, Svizzera, Belgio, Danimarca, Svezia, Germania) di spalla ai Rainbow per 19 date, a novembre tornarono per alcuni ultimi concerti in UK.

 

Verso la fine dell’anno nuvole nere si addensano sulla testa del gruppo. Tornarono in Australia per il tour chiamato A Giant Dose Of Rock’n’Roll che loro affrontarono di controvoglia mentre l’Australia, dopo un anno di loro assenza, si era un po’ intiepidita nei loro confronti, tanto che quando il 12 dicembre suonarono all’Hordern Pavillion di Sidney, capace di 5.000 spettatori, ne riuscirono a riempire a malapena la metà. All’insuccesso del tour si sommarono denunce per oscenità (Angus usava tirarsi giù i pantaloni e mostrare il fondoschiena nei concerti e nelle interviste, queste ultime corredate da dichiarazioni non da educande) e l’abortito tentativo di organizzare un tour americano. Non fosse bastato, nacquero anche problemi con la Atlantic USA, alla quale il disco non era piaciuto e che minacciò di licenziare la band: alla fine, grazie al sostegno di Phil Carson della Atlantic UK, il contratto venne salvato, ma al prezzo di una considerevole riduzione degli anticipi pattuiti per ciascun disco e della mancata pubblicazione di Dirty Deeds negli USA.

 

 

1977 – Let There Be Rock

 

Il quarto disco degli AC/DC è un parto veloce: viene registrato negli Albert Studios di Sidney in sole due settimane e pubblicato in Australia a marzo.

 

Che cosa vi aspettereste da un gruppo giovane appena entrato in rotta di collisione con la sua potentissima casa discografica, che gli rimproverava la testardaggine con la quale si ostinavano a coltivare la loro proposta musicale in un’epoca di riflusso della musica rock, nella quale il pop la faceva da padrone (i grandi hit di quel periodo venivano da Elton John, Eagles, Fleetwood Mac)? Che ammorbidisse il proprio sound e ammiccasse al grande pubblico?  Sarebbe una risposta sensata, ma che non mette nel conto la natura indomabile degli AC/DC, che in questa situazione realizzarono, senza esitazioni, un disco ancora più sanguigno ed energico dei precedenti.

 

Del resto, come ricordò il loro manager dell’epoca, Michael Browning (94) “L’approccio di Malcolm era di ignorare completamente quello che pensavano gli americani (della Atlantic).  Questo è stato il loro approccio sempre ed è quello che gli ha fruttato una grandissima e duratura carriera: mai e poi mai scendere a compromessi in situazioni come quelle”.

 

E lo stesso Malcolm, rievocando la registrazione dell’album, disse: “Era una bomba. Credo che fossimo un po’ più seri e che volessimo ottenere un suono più grezzo, tagliando i cori commerciali che c’erano in TNT. Sapevamo esattamente ciò che volevamo, cioè avere tre tracce live veramente toste, per dare più consistenza al set. Whole Lotta Rosie sarebbe stata un successo assicurato, lo sapevamo, e Bad Boy Boogie e Let There Be Rock erano le altre due che sentivamo avrebbero davvero fatto la differenza sul palco. Quelle tre hanno veramente messo in ombra la maggior parte delle altre canzoni dell’album e hanno fatto parte della scaletta live per anni a venire” (intervista a Metal CD, da 1).

 

Let There Be Rock prosegue la curva di crescita artistica degli AC/DC, decisamente un buon disco, migliore di quelli precedenti: il primo singolo è Dog Eat Dog, ottimo brano ritmato e potente.

 

La volontà di Malcolm era quella di mettere più in evidenza le chitarre e questo si percepisce bene nella title track che è tutta nel riff di chitarra, con Bon che canta solo negli spazi lasciati liberi dalle mitraglie dei fratelli. Il testo fu scritto da Bon negli uffici della Albert, con l’aiuto di una vecchia Bibbia… Durante la registrazione del brano un amplificatore cominciò a fumare e alla fine si fuse, ma nessuno smise di suonare; ricorda John Brewster, degli Angels (altro gruppo della scuderia Albert) che era presente: “Era assolutamente esaltante vederli in studio, perché non se ne stavano mica seduti lì come quei musicisti esperti con le cuffie alle orecchie che fanno tutto in modo meccanico. Suonavano come se fossero sul palco. Un’ispirazione totale. Le cuffie di Angus volarono via e lui finì sul pavimento a girare su sé stesso come al solito.” (3)

 

Hell Ain’t A Bad Place To Be è notevole, con la precisa e potente chitarra ritmica di Malcolm che, molto più del basso di Evans, detta il ritmo, e su quel tappeto si esercita la voce di Bon e la chitarra impazzita e ispirata di Angus; per il loro biografo Mick Wall questa era la Brown Sugar degli AC/DC e Mark Evans disse: “Se siete dei puristi e vi piacciono le chitarre che si integrano armoniosamente e le registrazioni perfettamente pulite, questo pezzo vi ucciderà, perché le chitarre picchiano senza alcun coordinamento per tutto il tempo. Ma ha quel feeling cattivo e rozzo che, semplicemente, dice AC/DC.” (94)

 

E’ bellissima anche Problem Child, classico brano di hard rock che ben esemplifica la differenza che corre tra un gruppo heavy metal e gli AC/DC, e bella Overdose, un giro blues, nonostante Bon si ingegni a sconciarlo cantando con un fastidioso falsetto alcune parti; ma la gemma del disco è Whole Lotta Rosie, dedicata ad una fan del gruppo, una tasmaniana di mastodontiche proporzioni con la quale Bon Scott si era biblicamente intrattenuto. “Siamo sempre stati grandi appassionati del primo rock’n’roll, tipo Elvis e Heartbreak Hotel, cose del genere, quei pezzi con stacchi e ripartenze, dinamici.  Per Whole Lotta Rosie cercavamo un’atmosfera alla Little Richard, da sano vecchio rock a manetta, per vedere che cosa riuscivamo a metterci sopra con le chitarre. Si è sviluppata così, ma poi cerchi solo la vibrazione, l’aspetto esaltante.” (Malcolm, 3); curioso che una canzone ironicamente intitolata come uno dei classici dei Led Zeppelin sia a sua volta divenuta un classico degli AC/DC, ma il pezzo è talmente trascinante da imporsi come uno dei migliori di sempre per il gruppo australiano.

 

Secondo Angus “Let There Be Rock fu davvero l’album che ci permise di colpire nel segno in tutto il mondo, credo.  Eravamo andati in Gran Bretagna e avevamo fatto un sacco di tour tra club, bar e robe del genere, e c’eravamo fatti un certo seguito di culto, ma quello fu il primo disco che entrò veramente in classifica.” (3)

 

Dopo la pubblicazione del disco gli AC/DC tornarono in Inghilterra per avviare un tour europeo come spalla dei Black Sabbath che, però, si interruppe bruscamente quando, nel corso di una lite, il bassista dei Sabbath, Geezer Butler, minacciò Malcolm con un coltello (anche se altre fonti parlano di un meno pericoloso pettine fatto a forma di coltello a serramanico).

 

Alla fine del tour venne mandato via il bassista Mark Evans, secondo Malcolm per disaccordi con Angus e scarso contributo alla band; anni dopo lo stesso Evans ha ammesso “Era evidente che la band non poteva andare avanti con me e Angus. E hanno fatto la scelta giusta tenendo Angus e mandando via me…” (89); venne sostituito da Clifton Williams (nato in un sobborgo di Londra il 14 dicembre del 1949, ma vissuto a Liverpool), il quale aveva in precedenza suonato negli Home (in un’occasione anche come gruppo spalla dei Led Zeppelin) incidendo tre album incensati dalla critica e ignorati dal pubblico e poi, dopo un tour in USA con la Al Stewart Band, nei Bandit (con Jim Diamond come cantante).  Secondo Angus fu preso perchè era di bell’aspetto e aiutava ad attirare le ragazze...

 

A luglio del 1977 il disco uscì negli USA e pochi giorni dopo il gruppo iniziò il suo primo tour americano, assecondando una strategia commerciale della Atlantic, convinta, non a torto, che il miglior modo di promuoverli fosse quello di farli conoscere dal vivo al pubblico yankee; per un paio di mesi girarono gli USA in lungo e in largo, percorrendo 60.000 km.  “Non era come in Gran Bretagna, dove la chiave era stata far sì che le riviste musicali parlassero di noi e cominciare a farsi vedere in giro. Quella era l’America, ci sono stati che da soli sono più grandi del Regno Unito. Magari una sera suonavi benissimo a Jacksonville e la sera dopo suonavi davanti ad un uomo da solo con il suo cane a Vattelapesca in Arizona.” (Jeffery, 2).  Il disegno strategico funzionò, a giudicare dal numero di richieste di gruppi famosi che li volevano come spalla nei concerti (suonarono con UFO,  Kiss, Aerosmith, Cheap Trick, Blue Oyster Cult, REO Speedwagon, Johnny Winter, Foreigner, Mink De Ville, Santana). Dopo il concerto di Jacksonville si incontrarono con i Lynyrd Skynyrd, con i quali nacque una forte simpatia basata su molte caratteristiche comuni (purtroppo anche nella imminente tragica perdita del frontman); con la band sudista andarono anche in sala di incisione e registrarono una jam session che sarebbe bello ascoltare (ma non si sa che fine abbiano fatto i nastri).

 

A settembre ritornarono in Europa per una quarantina di date, equamente divise tra UK ed Europa settentrionale, come lancio di Let There Be Rock che, in Inghilterra, uscì ad ottobre, ricevendo le prime lusinghiere recensioni, come quella di Phil Sutcliffe su Sounds (riportata in (1)): “Lo sapete cosa fanno gli AC/DC dal vivo? Scoperchiano le case, Distruggono le pareti. Schiacciano le macerie col rullo compressore fino a ridurle in polvere sottile. Beh, questa è la prima volta che li ho visti impacchettare tutto questo in un album”.

 

Peraltro, in quel periodo, complice un certo semplicismo della stampa specializzata, gli AC/DC, come già avevano fatto agli inizi della loro carriera, surfarono sull’onda punk, approfittando del fatto che essere associati a quel movimento all’epoca assicurava qualche maggior attenzione dalla stampa.  Naturalmente erano ben consapevoli di non aver nulla a che spartire con il punk, come emerge dalle parole di Bon Scott: “Onestamente pensavamo che il punk e la new wave ci rovinassero un po’ la piazza, ma non è stato così. E’ stata una gran moda per un po’ e c’è ancora chi continua a seguirla, ma la cosa principale è che ha dato un gran calcio nello stomaco al rock, capisci? Abbiamo suonato qui prima ancora che i Sex Pistols cominciassero ad essere presi in considerazione, e adesso la gente inizia a rendersi conto che vuole qualcosa di più di un tizio che canta di anarchia e stupri.” (2)

 

A metà novembre ricominciarono a girare gli States e il Canada e in questa occasione la Atlantic gli fece registrare un disco promozionale ripreso in diretta, Live From The Atlantic Studios. Stampato in cinquemila copie, non fu distribuito nei negozi, ma venne distribuito alle radio; la versione originale è ovviamente introvabile, è stato pubblicato come bootleg con il titolo 110/220 dalla Impossible Record Works e poi la Bonfire lo ha ristampato in CD nel 1997.

 

Nota profeticamente triste: intervistato a New York dalla fanzine Punk sul senso della vita Bon Scott rispose: “Più divertente possibile, più corta possibile” (2).

 

1978 – Powerage

 

Se ascoltando le tempeste sonore degli AC/DC vi è venuto spontaneo chiedervi dove e come gli australiani trovino tutta questa energia, una possibile risposta, non convenzionale, viene da Mark Hopitz, il tecnico del suono di Powerage, che fu registrato a febbraio del 1978 negli Albert Studios. Hopitz, che non è proprio l’ultimo arrivato nel mondo del rock, avendo lavorato anche con Bob Dylan e un’altra banda aussie, gli Inxs, raccontò che prima di registrare qualcosa gli AC/DC si caricavano parlando male di una qualche vittima di turno: “Sceglievano un soggetto su cui sfogarsi, che fosse un manager, un discografico, un personaggio televisivo. Quando arrivavano al punto, entravano in sala e sparavano giù una take. Funzionava che era una meraviglia. C’era un’intensità incredibile, sempre, in tutto. Angus è un tipo tranquillo; Malcolm è uno che si lascia prendere molto; Cliff era il nuovo arrivato e voleva solo essere gradito e fare la cosa giusta; Bon era Bon, insomma, carattere rilassato, molto simile a Michael Hutchence nella sua visione della vita. George invece… concentratissimo; Harry non era da meno, ma la concentrazione dei fratelli Young era semplicemente folle. George era capace di guardare un posacenere e farlo spostare soltanto col pensiero, tanto era determinato. (…) Malcolm esercitava senz’altro un grande influsso sulla band. Ma non credo che molti se ne rendano conto. La maggior parte della gente pensa che sia la band di Angus.” (3)

 

Powerage è sicuramente un buon disco, tendente al molto buono, e nel tempo si è guadagnato un nutrito numero di fan degli AC/DC che addirittura – con un po’ di esagerazione, considerando la qualità degli album usciti successivamente – lo considerano il miglior disco del gruppo. E non solo i fan, anche qualche critico, come Neil Perry della rivista inglese Vox, il quale nel 1994, rivisitando la ristampa della discografia degli AC/DC, assegnò la palma del migliore a Powerage scrivendo: “E’ costruito su ritmi boogie duri come unghie, mentre i fratelli Young strappano le sicure dei loro riff assassini come veterani segnati dalle battaglie e Scott racconta le sue cupe favole urbane di amori perduti e futile edonismo. Powerage brucia e rimane uno dei più grandi dischi maledetti di quel periodo” (77)

 

Anche gli stessi componenti della band ne erano, non a torto, molto contenti, considerandolo un lavoro maturo, tanto che Malcolm, molti anni dopo, riferendosi a Powerage disse: “Credo sia l’album più sottovalutato di tutti” (3).

 

Tuttavia, l’ascolto in anteprima della lacca non destò il medesimo entusiasmo alla Atlantic, che lo trovò poco commerciale.  In quei tempi, come abbiamo visto, era quotidiano il conflitto tra la spinta dei discografici che – in fondo è il loro lavoro – pretendevano musica che andasse incontro ai favori del pubblico, e la testarda determinazione degli AC/DC ad insistere con la propria formula musicale, restando sordi a qualsiasi diversa esortazione; non a caso il manager del gruppo, Michael Browning, rievocando Powerage, ha dichiarato: “Lo so che ci sono tanti che considerano Powerage il miglior disco della carriera degli AC/DC. Ma per quanto riguarda quello che sarebbe servito per il business fu un disastro.” (2)

 

Sia come sia, in una delle rarissime concessioni alle insistenze della casa discografica, il gruppo rientrò in studio per registrare una canzone “più radiofonica”, Rock’n’roll Damnation, che venne pubblicata come primo singolo ed entrò in classifica in UK al no. 24. “Avrebbe potuto essere un gran bel pezzo, ma se ci aggiungi i tamburelli, le maracas e dello shuffle, bè… non è esattamente quello che avrebbe dovuto essere.” (Jeffery, 2)   In effetti Rock’n’Roll Damnation è un classico power rock adolescenziale alla Cheap Trick, resta nelle orecchie, ma certo non rende giustizia alla qualità musicale che il gruppo sapeva esprimere.  Nel disco il singolo andò a sostituire Cold Hearted Man, che era stata inclusa nella primissima edizione dell’album ma che non sarà mai più riproposta in nessuna raccolta (senza troppi rimpianti, per chi la ha sentita).

 

Nel disco si trova una manciata di buone canzoni, tra le quali vale la pena di citare Down Payment Blues con un magnifico assolo di Angus (che nelle note di copertina, significativamente, guadagna il ruolo di headliner a scapito di Malcolm) e tutta l’energia del brano che va a spegnersi su alcune classiche battute blues; Riff Raff è lanciata a duecento all’ora, ma alla fine resta un po’ sterile; meglio in apertura del secondo lato Sin City (che per Malcolm era il pezzo migliore di Powerage (101)), con un’insolita evidenza del basso, ricorda un po’ il miglior Alice Cooper; l’accattivante giro di Gone Shootin’ ci rammenta, se ce ne fosse bisogno, che il linguaggio musicale degli AC/DC privilegia la semplicità; chiude Kicked In The Teeth, basata sul classico dialogo tra la voce e le chitarre, con un vertiginoso assolo di Angus.

 

Powerage è stato anche il primo disco degli AC/DC a ricevere una certa attenzione da parte della nostra stampa specializzata.  Manuel Insolera lo recensì sul Ciao 2001: “Intendiamoci, gli AC/DC non inventano niente di nuovo. Due chitarre, un basso e una batteria, dei riffs semplicissimi e immediati (alla Keith Richard, per intenderci), dei ritmi grevi e straripanti di forza, che ricordano da vicino gli ultimi Led Zeppelin (i quali possono essere indicati come i veri maestri del gruppo). Chi ama il rock torrido e viscerale non potrà non apprezzare come si conviene questo gruppo. E tra i nove brani che compongono il disco si segnalano particolarmente Down Payment Blues e Sin City per l’incredibile propulsione ritmica e Kicked In The Teeth o Riff Raff per l’ossessività schematica della loro struttura, che entra nel cervello quasi ipnoticamente. Una vera rock’n’roll band, autentica e genuina come quelle di una volta!” (4)

 

E Vincent Messina li presentò così ai lettori di Popster: “Cinque pischelli australiani ghignanti sul retro della copertina stanno ad annunciare quaranta minuti di violenza musicale dello stesso tipo che incendia le arene lontano da qui. Altro che sano e solido rock, questa è vera brutalità e anche delle più tozze. A voi piace? Il disco vi colpirà al mento più duramente del vostro peggior nemico. Se lo ascoltate in cuffia vi lascerà le orecchie sanguinanti.” (5)

 

Alla indiscussa buona qualità del disco non arrise un equivalente successo commerciale: Powerage guadagnò un disco d’oro (100.000 copie) in UK, ma restò fuori dai top 30 e negli USA non entrò neanche nei primi 100.  Non che questo scuotesse più che tanto le convinzioni degli AC/DC, i quali si dedicarono anima e corpo a quello che gli riusciva meglio, restando in tour per mesi e suonando decine di concerti. Ancora non erano sempre headliner, ma usavano la possibilità di suonare con gruppi più famosi per farsi conoscere: come disse un manager degli Aerosmith “la gente veniva per sentire gli Aerosmith e se ne andava entusiasta degli AC/DC”; del resto anche Joe Perry li andava sempre a vedere: “Riportavano il rock’n’roll agli elementi di base e non risparmiavano colpi, tutto qua”.

 

Purtroppo, però, in quel periodo si aggravarono i problemi di Bon con l’alcol e anche Phil Rudd incominciò ad andare in tilt a causa di abusi di droga: dopo ogni concerto doveva essere sedato, spesso in ospedale, per riuscire a dormire.

 

1978 – If You Want Blood... You Got It

 

Considerando l’importanza che i concerti rivestono per gli AC/DC, è sorprendente che il primo disco live sia uscito così tardi (ed ancor più sorprendente che i dischi ufficiali dal vivo siano stati così centellinati nel corso di tutta la loro carriera).  If You Want Blood, tra l’altro, rinunciò alla classica formula del “disco doppio dal vivo” che era lo standard assoluto negli anni settanta, per presentarsi in confezione con disco singolo.  Nelle intenzioni della casa discografica, delusa dalle non esaltanti vendite di Powerage, avrebbe dovuto essere una specie di greatest hits sotto spoglie di album live, sul modello di Alive e Alive II dei Kiss, che tanto successo avevano riscosso.

 

Il disco riprende la loro terza performance al Glasgow Apollo del 30 aprile 1978, una serata piuttosto movimentata (a giudicare dalle cronache, lo dovevano essere un po’ tutte): Bon Scott ad un certo punto si era perso tra la folla ed era finito fuori dal teatro.  E le maschere, non riconoscendolo, non lo volevano far rientrare perchè non aveva il biglietto…

Il live restituisce l’energia profusa dagli AC/DC sul palcoscenico: apre Riff Raff, in una versione più accattivante rispetto a quella in studio, ma è Hell Ain’t A Bad Place To Be ad imprimere un cambio di marcia, testimoniando l’ottimo stato di forma in cui era la band.  Il sound degli AC/DC è di una compattezza impressionante e i brani si susseguono senza cali di tensione, ma anche senza caratteristiche che valgano a distinguerli. The Jack è molto bella, con la scansione ritmica ad incorniciare gli assoli di Angus e Bon che gigioneggia con il pubblico; Whole Lotta Rosie si conferma un cavallo di battaglia delle esibizioni live del gruppo, bella anche High Voltage, dilatata nella versione live per dare spazio a Bon e Angus; la finale The Rocker è urlata, più che cantata, con voce stridula da Bon, sopra il preciso e potente drumming di Rudd ed il tagliente assolo di Angus. Nel bis di Let There Be Rock il boato del pubblico accoglie la band che era tornata sul palco indossando la maglia della nazionale di calcio scozzese, che si era appena qualificata per i mondiali in Argentina.

 

Silvio Parano, su Popster, si produce in una classica recensione da fan: “Questo gruppo australiano nel proprio paese, dove impera il rock più pesante che sia dato sentire, deve essere sicuramente sulla cresta dell’onda; infatti la loro musica è devastante, sconvolgente, aggressiva. (…) Se finito il disco non vi verrà spontaneo urlare che il rock è fantastico, montate su un qualunque mezzo di trasporto e alla prima curva tirate dritto.” (8)

 

Più ragionata la recensione di Federico Ballanti su Ciao 2001: “Gli AC/DC sono oggi la quintessenza di tutto quello che l’hard rock ha saputo esprimere nella prima metà degli anni settanta. Ripropongono in una dimensione durissima, esasperata, tutti quegli stilemi ormai quasi scolastici, nati dalle chitarre di Jimmy Page, Ritchie Blackmore, dalla furia dei Black Sabbath, ottenendo un successo clamoroso soprattutto dal vivo, dove l’hard rock la fa da padrone. Il gruppo ha cominciato ad aprirsi la strada in un periodo in cui l’hard era dato per spacciato, e sicuramente  lo era a livello ispirativo: ma il pubblico non mancava sicuramente ed a quello, un po’ furbescamente, si sono rivolti gli AC/DC.  Senza inventare niente, soltanto proponendo un suono ben eseguito, due chitarre dal timbro metallico e dal fraseggio piuttosto sciolto, la voce durissima e sporca di Bon Scott, brani elementari ma eseguiti con una grinta fuori dal comune, gli AC/DC hanno saputo raccogliere intorno al proprio rock i favori degli orfani dei duri di un tempo.” (10)

 

Pubblicato nell’autunno del 1978, If You Want Blood vendette 250mila copie e arrivò al 13 posto nella chart britannica, contribuendo in modo decisivo all’affermazione definitiva degli AC/DC. Non negli USA, però, dove si fermo cento posizioni più indietro.

 

 

1979 – Highway To Hell

 

Il braccio di ferro tra la Atlantic e i fratelli Young, tra le esigenze commerciali della casa discografica che soffriva l’incapacità degli AC/DC di sfondare in America e la caparbia volontà della band di continuare ad offrire il proprio messaggio musicale senza variazioni, esplose in modo clamoroso in occasione della preparazione del nuovo album.

 

I discografici provarono, senza successo, a far fuori Bon Scott, la cui voce era considerata poco radiofonica in un’epoca in cui le radio FM avevano un’importanza capitale per il successo commerciale; su Bon l’entourage del gruppo riuscì a fare muro, ma nulla potè per difendere George Young e Harry Vanda, storici produttori degli AC/DC.  Non si può certo dire che la decisione della band di affidarsi al fratello George fosse dettata unicamente da spirito di clan: la ditta Young & Vanda era sulla cresta dell’onda in Australia, reduce da due grandi successi internazionali in campo pop con John Paul Young (Love Is In The Air) e con Flash & the Pan, ma la Atlantic impose la loro sostituzione con Eddie Kramer (non uno qualsiasi, il produttore di Axis Bold As Love e Are You Experienced di Jimi Hendrix, che aveva lavorato anche con Led Zeppelin, Joe Cocker, Eric Clapton, David Bowie, Rolling Stones, Beatles, Kinks, Kiss); nonostante delle referenze così impressionanti i fratelli Young furono molto irritati e maldisposti per l’imposizione subita.

 

Il loro (ancora per poco) manager dell’epoca, Michael Browning, in proposito ebbe a commentare: “George e Harry erano abbastanza onesti al riguardo, ma sono sicuro che fossero molto arrabbiati, perché se una casa discografica americana ti dice che devi cambiare produttori quando nel loro paese sono quasi venerati, è un po’ uno schiaffo in faccia. A Malcolm e Angus non piaceva per niente, erano assolutamente scontenti per la situazione. Ma per quanto creda che Vanda e Young siano stati assolutamente decisivi nel creare il sound e sviluppare la musica tirando fuori il meglio da Malcolm, Angus e Bon, e per quanto fossero ottimi produttori, non erano al passo con il sound delle radio americane. Dovevi vivere in America per capire davvero quale fosse la mentalità dei ragazzi, degli ascoltatori e dei loro programmi. Potevi avere tutta la aggressività e l’atmosfera che volevi, ma dovevi mascherarla con una facciata più presentabile ed una produzione più completa. Doveva succedere, doveva senz’altro succedere: la Atlantic aveva ragione al cento per cento.” (3))

 

Eddie Kramer li accostò con rispetto, “Avevano un’atmosfera molto più ruvida, dura, cruda e semplice dei gruppi con i quali avevo lavorato. I due fratelli erano i veri capi e mi sembrava che ci sapessero fare, e con quel cantante, Bon Scott… Per la miseria, era semplicemente straordinario. Assolutamente incredibile. Ti ritrovi un grande cantante e una band con un sound potentissimo. Erano diversi dai Led Zeppelin per ovvi motivi e i Rolling Stones avevano un livello di raffinatezza molto più alto di questi ragazzi. Ma sono un gruppo rock semplice, crudo, essenziale, un gruppo di rock’n’roll elementare che è difficile trovare, Dio santo!” (3)

 

Il tentativo di difficile convivenza con il povero Kramer, probabilmente colpevole unicamente di essere stato paracadutato contro la volontà del gruppo, andò in scena ai Criteria Studios di Miami, ma dopo poche sessioni di registrazione Kramer venne giubilato. La onesta versione di Eddie Kramer: “Erano un gruppo molto indipendente. Ovviamente avevano molto talento e io pensavo che si potesse fare un ottimo disco. Secondo me il problema fu che il materiale non era tutto pronto e il loro modo di lavorare era abbastanza strano, direi. Più o meno era: ‘Oh, abbiamo questi pezzi…’, e Bon Scott aveva problemi con i testi, problemi con il bere e tutto il resto. A posteriori, incarnava perfettamente l’immagine del rocker duro: beveva, si dava agli stravizi ed era completamente ingestibile… Era il suo stile ed io non ero abituato ad avere a che fare con tutto questo.” (3). La versione di Malcolm è più basica: “Eddie, imparammo presto, era solo un bravo fonico.  Trovava degli ottimi suoni, ma era troppo… Questo tipo entrava, ci faceva sentire un pezzo dei Rolling Stones, ci faceva sentire un altro pezzo di qualcun altro e diceva: ‘Mettete quella strofa insieme a quel ritornello e vi ho trovato una hit’. Noi rispondevamo: ‘Fottiti!’. Fine della storia. Non poteva funzionare.” (3)

 

Rimasti senza produttore, con la Atlantic ferma nel non consentire il ritorno  Vanda & Young dopo il siluramento di Kramer, a risolvere la situazione fu Michael Browning che segnalò il trentunenne sudafricano John Mutt Lange, che non aveva mai prima lavorato con gruppi hard rock. “E chi è?” fu la reazione di Malcolm all’annuncio di Browning di aver concordato il suo nome con la casa discografica; evidentemente i musicisti con cui aveva lavorato Lange, nel suo curriculum Graham Parker e il successo di I Don’t Like Mondays dei Boomtown Rats, non rientravano nel pantheon del leader; “Se lo avessi saputo non gli avrei neanche fatto varcare la porta” commentò Malcolm (94).

 

Ma evidentemente Browning si guardò dal dirlo e fu un bene per gli AC/DC e per gli amanti del rock.  Le registrazioni avvennero nei Roundhouse di Londra e, sebbene con il flop di Kramer il gruppo avesse accumulato significativi ritardi sulla tabella di marcia, durarono tre settimane, tempo inusuale per il gruppo, probabilmente da imputare al proverbiale perfezionismo di Lange: “Penso che un aspetto importante di Highway To Hell sia che Mutt sapeva che tipo di sound andasse bene per le radio, mentre noi no.  Ogni settimana stava là a seguire la top 10 americana e ad ascoltare i suoni. E aveva un orecchio grandioso. Riusciva a sentir cadere uno spillo.  Sapevo che Bon era molto contento di lui: Mutt insegnò a Bon come respirare, prendendo aria dallo stomaco. Quando terminammo l’album Bon disse a Mutt “Pensi che ne varrebbe la pena se mi prendessi una pausa e seguissi qualche lezione?” e Mutt disse: “No, non credo, questo sei tu”.” (intervista di Angus a Musician, citata su (1)).

 

Lange, rispetto a George Young, aveva un approccio meno centrato sull’energia e più attento ai dettagli ed ai chiaroscuri, e finì per conferire al gruppo un suono più completo, non focalizzato solo sulle corde dei due fratelli Young; secondo Mark Blake quello che Mutt Lange fece fu accordare veramente le chitarre di Malcolm e Angus e assicurarsi che ogni strumento si potesse sentire bene, “ma invece di ridurre la potenza degli AC/DC il perfezionismo di Mutt ebbe l’effetto opposto: il loro sound divenne più brutale. Infatti, ascoltare Highway To Hell è come essere investiti dall’ultimo modello di carro armato…” (94).

E persino un incontentabile come Malcolm dovette a mezza bocca riconoscere i meriti di Lange: “Mutt conosceva la musica e lui curava gli aspetti commerciali mentre noi pensavamo ai riff ed in qualche modo riuscivamo ad incontrarci a metà strada, senza che sembrasse che stessimo facendo troppi compromessi con noi stessi. In realtà non abbiamo mai fatto un passo indietro su nulla. Eravamo un gruppo abbastanza difficile con cui lavorare per qualsiasi produttore.” (101).

 

Nella sua biografia degli AC/DC, L’Inferno Non E’ Così Male (2), Mick Wall riporta la testimonianza di uno dei tecnici del suono: “Angus era abituato a suonare in studio con i suoi quattro Marshall, ma Mutt voleva che lavorasse con un piccolo amplificatore appoggiato in un angolo. Gli faceva “siediti qui e io ti dico cosa suonare”. E Angus “Stai scherzando, vero?” Ma poi si sedeva accanto a Mutt, e Mutt non lo costringeva a fare le cose, era piuttosto un indicare la tastiera della chitarra, con una serie di “Ecco qui!” e “Rifallo” e “Così, continua!” e così via. Era per l’assolo di Highway To Hell, hai presente il primo, quello indimenticabile? Una splendida esplosione strumentale che inizia al minuto 2:12 per raggiungere l’apogeo 26 secondi dopo, quella nota squillante che tiene e su cui poi si arrampica… Fantastico! Tutte queste cose fecero sì che si conquistasse la loro attenzione, perché avevano capito che si stava facendo sul serio. Perché lui non costringeva nessuno, si limitava a dare suggerimenti, e di qualsiasi cosa si trattasse aveva ragione novantanove volte su cento. Non chiedeva loro di fare nulla che non fosse in grado di fare lui, né ha mai detto che in precedenza avevano fatto le cose in modo sbagliato, mai.  Li sospinse e li accompagnò con le buone alla meta, all’album finito”.

 

Difficile dire se sia dipeso dal tocco di Lange o se sia stata la naturale maturazione degli AC/DC, che erano andati crescendo di album in album, ma Highway To Hell è certamente uno dei migliori dischi mai prodotti dagli AC/DC (per chi scrive il migliore in assoluto, superiore anche al giustamente osannato Back In Black), aperto dalla trascinante title track, a proposito della quale il tecnico del missaggio, Tony Platt, disse: “Quel brano è semplicemente straordinario. La prima volta che ho alzato i fader su quella ho pensato: questa diventerà un classico! Allo stesso modo di All Right Now dei Free. Ovviamente i paragoni che si possono fare sono minimi, però aveva esattamente la stessa crudezza. Era talmente cruda che se ne sentiva il sapore.” (3)

 

Va anche registrato un giudizio più tiepido di Angus, rilasciato anni dopo, probabilmente teso a minimizzare l’importanza dell’intervento di Mutt Lange: “Non noto delle grandi differenze tra Highway To Hell e i dischi precedenti: è sempre la nostra musica. Highway To Hell è comunque un disco al quale siamo affezionati. E’ quello che ha decretato il nostro definitivo successo. Una cosa è chiara: non corriamo affatto il rischio di identificarci con quell’album. La gente ci apprezza come AC/DC, non come autori / esecutori di una canzone fortunata.” (7)

 

Ad esito di un ascolto attento e curioso di capire la portata dell’intervento di Lange, bisogna riconoscere che il sound degli AC/DC non è alterato, solo il suono è più tondo e, forse, più pulito di quello dei dischi precedenti; poi sarà un caso, ma il coro anthemico di Highway To Hell fa molto pensare alla formazione mainstream di Lange; e se due indizi fanno una prova, allora questa arriva con Walk All Over You, che  parte lentamente per poi distendersi nella consueta cavalcata chitarristica con magnifico assolo di Angus, ma anche con coretto in controcanto a Bon a tracciare la melodia.  Touch Too Much conferma l’altissima qualità del disco (forse solo Girl’s Got Rhythm è un pelo sotto, anche se Peter Frampton la mette tra le sue canzoni preferite e nella classifica compilata da Classic Rock delle loro prime 30 canzoni figura al quinto posto) con Bon sempre accompagnato dal controcanto delle altre voci e Angus che spara a mitraglia.  Vero, come scritto da Aldo Bagli nella sua recensione per il Ciao 2001 (6), che, sia nella scansione ritmica che nel canto di Bon, Beating Around The Bush è un calco di My Generation.  E la definitiva certezza dell’importanza della mano del produttore arriva con Shot Down In Flames: una canzone che in qualsiasi altro disco precedente sarebbe stata relegata al ruolo di anonimo riempitivo si carica di un suono tondo, profondo e potente. Molto bella.

 

La canzone che porta il titolo del precedente album dal vivo è ugualmente accattivante tra la sferragliante chitarra di Malcolm e un Bon che anche quando alza i toni della sua voce, contrariamente al passato, sembra in controllo.  A sentirlo oggi non può che salire il rimpianto per la sua imminente morte: sembrava in procinto di fare un ulteriore salto di qualità, chissà cosa avrebbe potuto ancora fare.  Ascoltate la sua voce diventare pura carta vetrata nella bellissima Night Prowler, un brano su cadenze blues che era stato scritto due anni prima, era stato inciso in modo ritenuto non soddisfacente varie volte, fino a quando, con Lange, esce la versione giusta.

 

Tuttavia, ed è il bello della musica come di qualsiasi arte, la critica musicale si è divisa tra gli entusiasti assoluti e gli scettici.  Alla prima categoria si iscrive il critico americano Charles M. Young: “Dopo cinque album con pochissime variazioni sul tema, hanno licenziato Vanda e Young e assunto Robert John “Mutt” Lange come produttore. Il risultato è stato il loro primo grande album, Highway To Hell. Le chitarre erano brutte, grasse e sporche, ma non approssimative. I riff, per la prima volta, avevano qualche buco. E Scott aveva alla fine imparato a controllare la sua straordinaria voce.” (36)

 

E come lui la pensa anche Mark Blake: “Dall’epoca della sua uscita, nell’estate del 1979, Highway To Hell è stato il brano e il disco di ingresso per generazioni di fan degli AC/DC. E’ stato il primo album degli AC/DC a proporre grandi canzoni e i loro grandi cori. E per quanto Back In Black sia un grande disco, senza Highway non ci sarebbero state Hell’s Bells e You Shook Me All Night Long.” (94).

 

Ma, per esempio, a Pierfrancesco Atzori che ne fece la recensione su Rockstar il disco non doveva essere molto piaciuto: “Un album non completamente convincente, specie se messo al confronto con il live precedente. Le idee non sono completamente a fuoco come in passato, mentre la ripetizione affiora tra le righe. Un disco di transizione, tutto sommato.” (27)  Bisogna considerare che allora gli AC/DC non erano ancora molto affermati in Italia e i giudizi espressi nei confronti dei gruppi che compaiono sulla scena sono spesso affrettatamente negativi: in casi simili mi chiedo spesso se, a distanza di anni, il giornalista sarebbe pronto a sottoscrivere il suo giudizio dell’epoca e mi rispondo che io stesso, nel tempo, ho mutato giudizio, talvolta anche radicalmente, su dischi o artisti che all’uscita non mi avevano convinto.  Ma questa è una divagazione, quindi torniamo ai nostri eroi.

 

Che il disco fosse buono lo dimostra anche la convinzione con la quale la Atlantic, che come abbiamo visto non era stata timida nel criticare le precedenti opere degli australiani, ne sostenne la promozione.  Per la verità, va messo agli atti che, forse per non perdere l’allenamento, la gloriosa casa discografica di New York cercò, inutilmente, di cambiarne il titolo, preoccupata che il gruppo potesse essere scambiato per una setta di satanisti.  Pubblicato alla fine di luglio 1979 in UK e una settimana dopo negli USA, Highway To Hell arrivò subito al no. 8 in classifica, mentre negli USA salì fino al 17 e vinse il primo disco di platino della loro carriera; lo ritirarono ad ottobre a New York, reduci da una nottata in cui avevano devastato un albergo a Columbus.

 

Al di là dei piazzamenti in classifica, l’autostrada per l’inferno è stato il vero punto di svolta della carriera degli AC/DC, rivelandosi piuttosto un’autostrada verso il successo.  Come diretta conseguenza della nuova dimensione seguì anche la separazione dal manager Michael Browning, sostituito dall’agenzia Leber Krebs, che aveva già in scuderia Ted Nugent e gli Aerosmith, tra gli altri. Anche i mezzi molto superiori dei nuovi manager contribuirono a far fare il salto di qualità al gruppo, che nella sua attività concertistica passò dai teatri alle grandi arene all’aperto, con tangibili benefici per il conto in banca.

 

 

1980 – Back In Black

 

Il 18 febbraio 1980 Bon Scott è a Londra e la sera va con un amico, Alistair Kinnear, alla presentazione di una nuova band al Camden Town.  Come di consueto beve senza freni e si addormenta profondamente nell’auto dell’amico che lo stava riportando a casa; Kinnear non riesce a spostarlo e decide di lasciarlo a dormire nella sua auto, contando sul fatto che, al risveglio, Bon avrebbe trovato la via di casa.  Lo ritroverà il pomeriggio dopo come lo aveva lasciato, ormai privo di vita.  Bon Scott aveva 33 anni.

 

Secondo l’autopsia la morte era sopravvenuta per intossicazione da alcol, ma autorevoli biografi, come Mick Wall (2) e Geoff Barton (94), ipotizzarono che Bon fosse stato vittima di un micidiale cocktail di alcol ed eroina; Barton mise anche in evidenza qualche incongruenza nella ricostruzione dei fatti (ma in casi come questo una certa dose di complottismo fa parte delle regole del gioco…) e negli anni persino l’esistenza stessa di Kinnear è stata messa in dubbio. Kinnear, che aveva fatto perdere le sue tracce, ricomparì poi nella primavera del 2005 dalla Spagna meridionale, dove si era trasferito (113).

 

La morte di Bon Scott, ennesima triste replica del mito del rocker dalla vita maledetta e breve, suscitò un’enorme impressione nel popolo dei fan degli AC/DC e, naturalmente colpì al cuore anche la band.  Bon era uno dei trascinatori del gruppo: Le numerose rievocazioni di chi ha avuto modo di conoscere Bon Scott da vicino sono unanimi nel sottolineare come Bon avesse un carattere molto cordiale e semplice, ricco di buoni sentimenti, anche se con una goliardica inclinazione per menare le mani e una più pericolosa, come si è purtroppo dimostrato, attrazione per alcol e droghe.

 

Molti i tributi che arrivarono dal mondo dell’hard rock: i Cheap Trick, in All Shooked Up, dedicarono alla tragedia un brano, Love Comes A Tumblin’ Down, e con gli Angel City incidono Highway To Hell; i Santers gli resero omaggio con una cover di Shot Down In Flame; i Trust gli dedicarono l’album Repression; i Girlschool aggiunsero al live act Live Wire; i Nantucket intitolarono il loro nuovo disco It’s A Long Way To The Top includendoci la cover della omonima canzone; Ozzy Osbourne e Randy Rhoads scrissero per lui Suicide Solution.

 

Bon venne cremato e le ceneri furono tumulate a Fremantle in Australia; nel 2005 la sua tomba è stata dichiarata dal National Trust of Australia località ad alto interesse culturale della nazione.

 

I fratelli Young erano fortemente in dubbio se considerare la lapide che aveva chiuso il sepolcro di Bon Scott come una pietra tombale anche sulla carriera degli AC/DC; “Eravamo così depressi, non facevamo altro che andarcene in giro in silenzio. Perchè non c’era niente. Niente.” (Malcolm a Classic Rock, agosto 2005, citato in (1)).  A posteriori hanno ricordato come una spinta decisiva alla decisione di proseguire venne dall’incoraggiamento in tal senso ricevuto, al funerale, dal papà di Bon.

 

Per reagire alla fase depressiva, gli AC/DC si chiusero in studio: “In pratica ci ritirammo nella nostra musica. All’epoca non pensavamo in modo molto lucido. Ma decidemmo che era meglio lavorare piuttosto che starsene lì seduti, ancora sotto choc per la morte di Bon. Così, in qualche modo, fu terapeutico.” (Angus a Classic Rock in (1)).  Ma naturalmente c’era da risolvere il problema più doloroso e difficile, la sostituzione di Bon, per la quale furono fatti innumerevoli provini: Gary Holton degli Heavy Metal Kids; Steve Burton; Jimmy Barnes dei Cold Chisel; Gary-Pickford Hopkins, già con i Wild Turkey; Steve Parsons dei Baker Gurvitz Army, poi negli Sharks di Andy Fraser.  Quelli che ci andarono più vicino furono Allan Fryer dei Fat Lip e Terry Wilson Slesser dei Back Street Crawler, ma per un motivo o per l’altro i fratelli Young non chiusero con loro.  Fryer si consolò costituendo un gruppo ispirato agli AC/DC, gli Heaven, con l’ex Mark Evans.

 

Come tutti i momenti topici delle grandi band, anche questo nel tempo è stato ammantato da un alone leggendario; lo raccontiamo così come tramandato.  Mentre lo psicodramma della ricerca del cantante per gli AC/DC era in pieno svolgimento, un fan americano del gruppo mandò al management degli AC/DC una cassetta che conteneva canzoni dei Geordie, un gruppo che aveva avuto una fuggevole notorietà a meta degli anni settanta, il cui cantante era un certo Brian Johnson (fonti più prosaiche ma forse attendibili sostengono che fu Mutt Lange ad insistere perché lo provassero).  Comunque sia Brian venne convocato a Londra per sostenere il provino al buio e fece anche qualche resistenza ad andare.

 

Brian Johnson era nato a Dunston, nei pressi di Newcastle Upon Tyne il 5 ottobre 1947 ed aveva abbondanza di sangue italiano, perché la mamma era di Frascati (di cognome faceva De Luca).  Con i Geordie aveva registrato due lp tra il ‘73 e il ’74. Con il loro primo album, Hope You Like It, nel 1973 avevano suscitato un certo interesse, e uno dei singoli, All Because Of You, era entrato nella top ten in UK; in quel periodo comparvero un paio di volte a Top Of The Pops, trasmissione tv che costituiva una sorta di consacrazione e, peraltro, uno dei loro concerti di quello stesso anno era stato aperto dai Fraternity, gruppo il cui vocalist era Bon Scott! (86). Il secondo disco (Don’t Be Fooled By The Name, 1974) era andato molto meno bene e l’anno dopo i Geordie si erano sciolti.

 

Quando lo chiamarono per il provino Brian non se la passava bene: viveva applicando tettucci di gomma alle auto. Sebbene fosse abbastanza disilluso dalla parabola con i Geordie, il cui modesto successo non aveva lasciato alcuna traccia, in quel periodo ne aveva ricostituito una seconda versione e faceva piccolo cabotaggio ma, quasi fosse una premonizione, i live act dei Geordie II si chiudevano con una cover di Whole Lotta Rosie. Anche quando comprese che l’audizione era per gli AC/DC non si illuse di potercela fare, essendo convinto che alla fine avrebbero scelto un cantante famoso, e quindi non fu sorpreso quando il NME annunciò che la band aveva scelto Allan Fryer...

 

Al contrario, la sintonia con gli altri componenti del gruppo era stata immediata durante la prova; anche se lo congedarono dicendogli che si riservavano di fargli sapere, avevano subito deciso che lui fosse il cantante giusto per sostituire Bon.  Quando, dopo il secondo provino, Malcolm lo chiamò per dirgli che lo volevano per la registrazione del disco alle Bahamas, la sua risposta fu: “Ascolta, facciamo così, io rimetto giù e tu richiami tra dieci minuti, tanto per essere sicuri che non sia uno scherzo.” (2)  Erano trascorse sei settimane dalla morte di Bon.

 

“Si adattò praticamente subito. Il punto è che volevamo trovare qualcuno che avesse una sua personalità, e lui è proprio un personaggio” dichiarò Malcolm (1), e Angus circostanziò ulteriormente la scelta, inaugurando quello che per alcuni anni a venire sarebbe stato il leit motiv di qualsiasi critico o appassionato che si occupasse degli AC/DC: il confronto tra Bon e Brian. “Bon aveva una voce unica e Brian ha uno stile tutto suo, ho dovuto adattare il mio modo di suonare, ma non di molto: lo stile è lo stesso, il “tiro” è lo stesso, solo certi particolari sono diversi. Se Bon fosse stato vivo avremmo fatto Back In Black allo stesso modo.  Era già stato scritto quasi per intero. Io e mio fratello stavamo lavorando su del materiale per l’album e Bon sarebbe dovuto venire una settimana dopo a provare i testi in studio. Ma è successo quello che tutti sanno, fu come se qualcuno avesse rubato la metà di me stesso. Il gruppo continuò perché se fosse stato lui a decidere avrebbe fatto lo stesso, perché gli AC/DC sono un gruppo unito e non una persona sola. Se fosse successo a me tutto sarebbe continuato allo stesso modo.” (Angus, 38)

 

Alla fine quello che per comune opinione è il capolavoro degli AC/DC fu registrato a partire da metà aprile del 1980 negli studi Compass Point di Nassau nelle Bahamas, di Chris Blackwell, proprietario della Island.  In quel periodo in studio c’erano anche gli Emerson, Lake & Palmer, impegnati nella produzione dell’assai meno indimenticabile Love Beach.

 

Brian Johnson era molto preoccupato di non essere all’altezza: “Dopo 5 giorni di prova a Londra mi ritrovai alle Bahamas.  E’ un posto solitario e decadente.  Mi sono trovato strappato dal mio universo proletario di Newcastle al sole umido della Bahamas e delle sue palme. Continuavo a ripetere a me stesso: ‘finiremo mai questa registrazione? Funzionerà? Già vedevo il gruppo che mi diceva ‘E’ stata una perdita di tempo, lo buttiamo nella spazzatura e proviamo con qualcun altro’” (19).  Peraltro, prendere il posto di Bon significava anche assumere il ruolo di autore dei testi e questo era persino più difficile che sostituire la voce di Bon, anche se bisogna riconoscere che le liriche degli AC/DC, tutte incentrate su doppi sensi a sfondo sessuale ed esaltazioni dell’energia, non erano certo letterariamente inarrivabili; il risultato non fu malaccio, anche se ci furono voci che, sulla base di vere e proprie analisi filologiche, sostennero che Brian avesse abbondantemente saccheggiato strofe che erano state scritte da Bon in vista della registrazione del disco, mentre altri, probabilmente più fondatamente, affermarono che alla redazione dei testi contribuirono un po’ tutti.

 

Secondo Charles Young non c’è da stupirsi riguardo alla continuità dei testi: “Sebbene Brian non cantasse affatto come Bon, i due arrivavano al rock con un approccio spirituale simile: emarginati della classe lavoratrice che non avevano alcuna voglia di cantare qualcosa che fosse più astratto di una malattia venerea. Mentre la maggior parte delle band affrontano i loro testi tirandoci dentro un mucchio di simboli altisonanti e lasciando all’ascoltatore di decidere il significato, gli AC/DC si esprimevano in modo molto più diretto, perché non avevano altro da dire.” (68).

 

A proposito dei testi del nuovo disco, c’è un divertente aneddoto secondo il quale, ad un giornalista che esprimeva la propria incredulità riguardo al fatto che avessero intitolato un brano “Give The Dog A Bone” (letteralmente “dai un osso al cane”, in realtà un intraducibile gioco di parole che invita a dare soddisfazione sessuale ad una ragazza di malaffare) Brian Johnson risponde “Ti prego, non spezzare il cuore a mia madre! A mia madre quella canzone piace perché dice che a nessuno importa più nulla dei cani. Mi ha detto: Brian, è così carino da parte tua cantare una canzone su questo argomento” (68)

 

Il disco è sicuramente bellissimo, carico di emozioni, rabbia e voglia di vivere come nessun altro album della band australiana; nel complesso, rispetto a Highway To Hell, il suono è tornato un po’ più grezzo, ma la qualità resta elevata.  Per ricordare in quale terreno affonda le sue radici, la iniziale Hells Bells, prende avvio con i rintocchi delle campane a morto; per la registrazione del disco provarono ad usare le campane di una chiesa delle Midland, ma la presenza di uccelli nel campanile impedì una registrazione e quindi dovettero aspettare la fusione di quella che sarebbe stata usata nel tour: pesava una tonnellata (scendeva sul palco all’inizio) se la erano fatta fondere apposta dalla Denison.  Nel brano, che ha cadenze un po’ doom, alla Black Sabbath, alle campane fa seguito il cantato di Brian ed è subito evidente che, anche se la voce è più acuta e più stridula, il suo stile è simile a quello di Bon.

 

Shoot To Thrill già lascia intendere quanto Brian si sia rapidamente integrato, la sua voce duetta benissimo con le chitarre e la canzone è molto fluida e bella; Let Me Put My Love Into You ha una cadenza da gruppo americano, con quella solennità hard che ricorda un po’ i Rush. Il secondo lato (perché all’epoca i dischi avevano due facciate...) si apre con la magnifica title track, un pezzo di una maturità e di una classe che gli australiani non hanno mai raggiunto né prima, né dopo (votata dalla rivista Total Guitar come l’ottavo miglior riff di chitarra di tutti i tempi).  You Shook Me All Night Long lascia spazio a delle aperture melodiche, soprattutto nell’uso dei cori, che ritorna simile in Rock’n’Roll Ain’t Noise Pollution, orgogliosa difesa della musica rock suscitata dal dibattito che era stato scatenato sulla stampa londinese riguardo all’inquinamento acustico generato dal Marquee Club nel quartiere.

 

Naturalmente le attenzioni sono tutte per il nuovo cantante: colpisce al primo impatto per essere un tono sopra quello che dovrebbe, ma poi procedendo con l’ascolto si amalgama bene con la musica. Alla fine regge il confronto con Bon, che forse era più potente, specie nella sua ultima prova, ma certo se tutti e due si mettessero a confronto con il comune modello, Robert Plant, si aprirebbe l’abisso…  Angus descrisse così le differenze tra Bon e Brian in un’intervista del 1985: “Bon aveva una vocalità acida naturale, la sua voce raspava come carta vetrata anche quando non cantava e per lui era naturale esibirsi con quei toni. Brian invece ha una voce più bella in senso classico, cioè con più bassi, corposa insomma, solo che ha dovuto adattarla al clichè sonoro del gruppo. Il suo è stato un grosso lavoro e ti garantisco che non è stato facile.” (45)

 

La critica musicale, che con gli AC/DC ha spesso mantenuto un tono altezzoso, questa volta non ha dubbi sulla qualità del disco, a cominciare da Charles Young che, su Musician (68), lo descrive come “il disco che ha ridefinito gli standard dell’hard rock per la decade successiva”.

 

E la sostanza non cambia per chi è meno lapidario.

 

Uno dei loro biografi, Murray Englehart: “L’album fu una rivelazione. Sembrava fragoroso anche se non veniva ascoltato ad alto volume e alzandolo al massimo era magnifico. Sembrava che le chitarre di Malcolm e Angus esplodessero dagli impianti. La sala macchine ritmica di Phil Rudd e Cliff Williams toglieva il fiato, e poi c’era la voce: sembrava che Brian fosse rimasto sepolto vivo per decenni e finalmente si fosse liberato.  Negli anni a venire, gli studi di registrazione di Nashville, la capitale mondiale del country, avrebbero usato Back In Black come mezzo per controllare l’acustica di una sala, mentre i Motorhead lo avrebbero usato per regolare il loro mostruoso impianto di amplificazione.” (3)

 

Barry Walters su Rolling Stone: “Provate a pensare che Mick Jagger o Bono o Axl Rose o Eddie Vedder muoiano e che i loro rispettivi gruppi decidano di sostituirli e fare un nuovo disco. Quante probabilità ci sarebbero che facessero non solo l’album più venduto della loro carriera, ma anche il migliore? Questo è lo scherzo che sono riusciti a combinare gli AC/DC con Back In Black (…) che ancora suona profondamente senza tempo, l’essenza di un hard rock di impenitente semplicità, ma di selvaggia fattura.” (15)

 

Classic Rock nel 2001 compilò la sua lista dei 100 migliori dischi di rock di tutti i tempi, piuttosto discutibile (come tutte le classifiche del genere, del resto…) con una forte matrice hard rock come nelle corde della rivista, e gli AC/DC piazzarono Highway To Hell al 61° posto e Back In Black al ben più prestigioso numero 4, con la seguente motivazione: “E’ una collezione di irresistibile rock’n’roll imbevuto di suggestioni allusive e libidinose. Affilato, di buon umore e senza un minuto di troppo, Back In Black era il suono di un gruppo in lutto che ha elaborato il dolore e l’angoscia con un’esibizione di spavalderia e brillantezza che senza dubbio avrebbe fatto spuntare un ghigno sul volto di Scott. E chi potrebbe chiedere di più?” (86)

 

In Italia non è che ancora li conoscessero tanto… Del resto il tour europeo toccò 24 nazioni, praticamente tutte, tranne l’Italia, dove si temeva per la sicurezza della band (!). Su Popster si accredita come vera la fake story che Angus avrebbe avuto 14 anni (12 meno di Malcolm) all’esordio (9); Manuel Insolera, su Ciao 2001, attribuisce la morte di Bon Scott ad un incidente automobilistico (11)...  Lo stesso Insolera, definì il disco come “di transizione” sostenendo che Brian Johnson si limitava a “fare il verso al defunto Bon”, e concluse la propria recensione affermando: “E se, come abbiamo detto, il clima resta piuttosto sullo standard, ciò non impedisce soprattutto a tre brani di emergere in maniera particolare. Si tratta dell’iniziale Hell’s Bells (un brano lento e un po’ sepolcrale, probabilmente dedicato alla memoria dell’amico scomparso) e poi di Shake A Leg e Back In Black, due piccoli monumenti hard, elettrici e martellanti come non mai, che avrebbero ben figurato tra i fuochi d’artificio del precedente Highway To Hell.” (11)

 

Solo due settimane dopo, sulla stessa rivista, corresse il tiro Aldo Bagli: “Ancora il nostro pubblico non ha scoperto del tutto quella che viene indicata come l’attuale migliore rock’n’roll band del mondo: gli AC/DC. Abbiamo detto rock’n’roll e non hard rock. (…) Gli AC/DC non appartengono a questo filone.  Il loro è il più classico dei rock’n’roll, costruito su ammiccamenti mid-time e su furibonde chitarre ritmiche. Proprio come i vecchi Stones. (…) Il nuovo cantante non fa assolutamente rimpiangere Bon Scott, il suo timbro, forse più cupo di quello del suo predecessore, ben si adatta allo stile del complesso. Back In Black: in tutto dieci pezzi. E tutti di un livello qualitativo davvero elevato.” (12)

 

Back In Black fu il disco della consacrazione e, forse anche per l’aura emozionale creata dalla scomparsa di Bon Scott, la lunga tournée in USA ed Europa segnò il sold out quasi ovunque e il disco vendette benissimo (salì fino al primo posto per due settimane in UK e diventò disco di platino in USA). A questo periodo risale l’ultimo concerto degli AC/DC come spalla: da allora in poi sarebbero stati sempre headliner (anche al Monsters of Rock di Castle Donington, agosto 1981).  Sebbene Brian se la cavi bene, non c’è dubbio che la presenza scenica sul palco ha perso un protagonista: Angus resta l’unica stella, Brian è molto meno di peso rispetto a Bon.  Ma lui se la godeva un mondo: “Il vantaggio più grande di far parte del gruppo è che posso entrare ai concerti senza neanche pagare il biglietto, e ho anche il miglior posto del locale.” (1)

 

Sull’onda del successo la Atlantic pubblicò negli USA (dove non era mai uscito) Dirty Deeds all’inizio del 1981. Anche questa ristampa salì fino al no. 3 delle classifiche USA, ma la mossa, compiuta per sfruttare il travolgente esito di Back In Black, era commercialmente discutibile, inflazionando il mercato in prossimità della successiva uscita di For Those About To Rock e, soprattutto, alimentando il mito di Bon Scott a scapito dello sforzo di imporre Brian come suo sostituto. La verità è che la Atlantic non credeva nelle capacità del gruppo di reggere il successo e, per questo, impostò una strategia mordi e fuggi.

 

Poco male per il gruppo, che invece aveva una fiducia incrollabile nelle proprie potenzialità, che già si era trasmessa all’ultimo arrivato, come testimonia questa dichiarazione di Brian: “La musica che facciamo andrà avanti per sempre. Non è hard, come alcuni si permettono di insinuare: è puro rock’n’roll. Siamo ragazzi normalissimi, ma sul palco diventa pazzia pura, ti dimentichi dei conti da pagare, della rata della moto, che hai litigato con i genitori; sei esattamente come i ragazzi in sala. La comunicativa è totale, i fans sanno che sono esattamente come te, potrebbero fare altrettanto bene. Non guardare Angus, Angus è un caso particolare, è autoreferenziale per natura, lui suona e basta. Angus è Angus. E se non si consuma lui suonando, non si consuma nessuno!” (Brian Johnson, 14)

 

Intanto Back In Black era arrivato a vendere 12 milioni di copie, nel 1997 sarebbero state 16 milioni, secondo album di hard rock più venduto della storia dopo IV dei Led Zeppelin, nel 2004 20 milioni, ad oggi oltre 50 milioni, secondo la RIAA secondo disco più venduto al mondo dopo Thriller di Michael Jackson.  Nella classifica di Rolling Stone dei 100 migliori dischi degli anni ’80 ha conquistato un prestigioso 26° posto (59).

 

1981 – For Those About To Rock

 

Per un artista partorire una grande opera è certamente difficile.  Ma la cosa più difficile in assoluto è realizzare l’opera successiva...

 

Gli AC/DC si accinsero all’ardua prova nell’estate del 1981, in parte a Londra e in parte a Parigi, per la terza volta con Mutt Lange.

 

Dieci anni dopo in un’intervista a Metal CD, Malcolm non dimostrò un grande entusiasmo per il risultato dei loro sforzi: “Ci è voluta una vita per fare quel disco, e si sente. E’ pieno di tanti piccoli pezzetti diversi, e non scorre bene come dovrebbe fare un album degli AC/DC. Ci sono alcuni buoni riff su quel disco, ma c’è una sola canzone che ci piaccia veramente ed è la title track. Quando finimmo l’album era già passato troppo tempo. Credo che alla fine nessuno, nè il produttore nè noi della band, potesse dire se suonava bene o male. Erano tutti stufi di quel disco.” (1, 101)

 

Lo stato d’animo di Malcolm probabilmente dipende dall’insofferenza verso il metodo di lavoro perfezionista di Lange, che comportava interminabili session alla ricerca del suono che lui poteva reputare perfetto: si racconta che entrati in sala i primi tre giorni fossero trascorsi provando il suono del rullante della batteria…

 

Di fatto, la band, e soprattutto Malcolm, faceva fatica ad elaborare il successo di Back In Black; molti fattori contribuirono a far salire la tensione: la intempestiva pubblicazione dei vecchi album da parte della Atlantic; le lungaggini di Lange in sala di registrazione; una mediocre prestazione all’importante festival di Donington nell’estate del 1981 (suonarono male, ma a loro parziale discolpa bisogna dire che poco prima del concerto, a causa della pioggia, saltarono i bassi dell’impianto di amplificazione, e dovettero farne a meno); la sensazione che il loro manager, Peter Mensch, fosse troppo occupato con altri artisti per curarli adeguatamente; non ultima, la sensazione che tutti coloro che gli giravano attorno guadagnassero troppi soldi alle loro spalle.  Risultato finale: dopo l’uscita dell’album Malcolm smantellò la squadra vincente, licenziando sia Lange che Mensch.

 

Peraltro, nonostante le cattive sensazioni, For Those About To Rock, uscito a novembre del 1981, negli USA tenne il primo posto nella classifica di Billboard per tre settimane e conquistò svariati dischi di platino in tutto il mondo prima che l’anno fosse finito, in poco più di un mese, per arrivare a 25 milioni di copie vendute entro il 1982.  Ma è vero che il disco, punteggiato dagli iconici colpi di cannone, mostra una grana più grossa rispetto ai due splendidi dischi precedenti, un suono più americano, meno profondo, sempre trascinante ma più dozzinale. Non tanto Let’s Get It Up che, fin dal titolo, evoca un suono più Rolling Stoniano, un rock’n’roll meno pesante del solito, ma già con Snowballed si percepisce il cambiamento di clima, il brano è buono ma segue i sentieri più classici dell’hard rock grezzo, con le chitarre lanciate a duecento e la voce di Brian che strepita stentorea, tanto alla fine si aspetta solamente l’assolo di Angus, che non delude mai. Buona l’apertura del secondo lato con la felice melodia del coro di Evil Walks e la sulfurea C.O.D., a proposito della quale ha raccontato Angus: “La gente pensa che C.O.D. significhi ‘cash on delivery’ (pagamento contrassegno); io sono stato a pensarci un po’ per tirare fuori qualcosa di meglio e alla fine me ne sono uscito con ‘care of the devil’.  Ma noi non siamo satanisti appassionati di magia nera o comunque li vogliate chiamare. Non bevo sangue; al massimo, di tanto in tanto, posso mettermi degli slip neri, ma niente di più.” (94) Breaking The Rules è un’altra concessione allo stile Alice Cooper, ma alla fine trova la sua strada e anche Night Of The Long Knives si appoggia sulla melodia del ritornello corale per vivacizzare un pezzo altrimenti abbastanza anonimo.

 

Anche secondo Mick Wall (2), For Those About To Rock si tiene a siderale distanza, dal punto di vista qualitativo, rispetto al precedente.  La qualità del suono è eccellente (e ci mancherebbe…) ma secondo lui lo stesso non si può dire della qualità della musica, fatta eccezione per la title track.

 

E in generale le reazioni della critica sono divise tra un’inerzia che porta ad esprimere giudizi positivi sulla spinta dei due magnifici dischi che hanno preceduto questo lavoro e qualche valutazione più accurata.

 

Tra queste ultime si distingue quella di Federico Ballanti, il quale su Ciao 2001 (21) coglie l’occasione dell’uscita del disco per fare un’analisi lucida ed approfondita sul sound degli AC/DC: “In effetti il gruppo dei fratelli Young suona il miglior hard rock’n’roll che sia possibile ascoltare oggi. Ben diversamente dalle truculente heavy metal band che oggi circolano in Inghilterra, gli AC/DC propongono una miscela musicale che si riallaccia idealmente, e praticamente, allo spirito musicale dei Rolling Stones e dei Led Zeppelin. (…) I tempi medi, caratteristici dei Rolling Stones e della batteria monolitica di Charlie Watts sono utilizzati senza sosta, in ogni brano, dagli AC/DC, che con Phil Rudd cercano evidentemente di riproporre lo stesso mito. La chitarra ritmica di Malcolm Young sfrutta questi mid-time con la stessa tecnica a riff aperti che usa Keith Richards, vero maestro nel comporre canzoni sempre diverse con gli stessi tre-quattro accordi. Malcolm Young è sulla stessa strada: i motivi degli AC/DC sono tutti simili, però tutti diversi e tutti memorizzabili facilmente per via della cantabilità che li distingue. (…) Le matrici dei Led Zeppelin sono invece evidenti se si pensa a due cose: il tono generale del suono e il lavoro tra voce e chitarra solista. Il suono degli AC/DC è freddo, metallico, scarno, proprio come quello dei primi album degli Zep. (…) La chitarra di Angus, spezzando il ritmo generale della canzone con le sue entrate e i suoi riff solistici, di solito nei controtempi, crea il presupposto per il duettare della voce: la stessa tecnica inventata dagli Zep. La voce più metallica di Brian Johnson (rispetto a Bon Scott) rende ancora più facile questo lavoro, e il nuovo album ne è una conferma.”

 

Iscritto alla categoria dei fan Sebastiano Zampa su Mucchio Selvaggio (22): “E’ l’amore sconfinato per il rock ad apparire come il denominatore comune in tutto l’album, sia che si manifesti nelle forme più energetiche di brani come Snowballed o Put The Finger On You, sia nei momenti più rilassanti di Breaking All The Rules o Spellbound. (…) For Those About To Rock è un’altra tappa nell’evoluzione del sound AC/DC, e testimonia l’instancabile volontà di chi, come questi cinque musicisti, suona il rock per divertire divertendosi, alla faccia di coloro che fanno musica solo per i molti zeri di un conto in Svizzera.”

 

Stefano Mannucci è un po’ meno convenzionale, ma non meno entusiasta, nella sua recensione su Rockstar (22b), dove, pur osservando che “certo, gli AC/DC non possono esentarsi da una sottile monotonia di fondo”, afferma: “Gli AC/DC sono in assoluto il miglior gruppo heavy disponibile sulla piazza. (…) Modernizzare l’hard rock non vuol dire amplificarne il volume e la velocità, ma piuttosto fornirgli dei significati. Prendete la voce di Brian Johnson, per esempio. E’ spesso e volentieri tesa sugli acuti ma non si concede mai l’urlo fine a sé stesso. E’ per questo che Brian (più ancora dello scomparso Bon Scott) ricorda positivamente l’impareggiabile Robert Plant, pur non possedendone il calore e la ricchezza di toni. Tuttavia è uno dei pochi heavy vocalist che interpreti quello che gli esce dalla bocca, e va plaudito per questo. Allo stesso modo Angus Young non è un Jimmy Page, né avrebbe potuto esserlo, vista la sua proverbiale parsimonia a concedere assoli. Però si adopera intelligentemente alla costruzione del suono, di un riff che sia godibile e non lacerante. Piuttosto che erigere inaccessibili muraglie armoniche che nessuno si sognerebbe di valicare. Angus si preoccupa di piazzare architravi, puntelli, tramezzi laddove ce n’è bisogno.”

 

Sulla stessa rivista appare più misurato il giudizio di Pierfrancesco Atzori: “Il disco ha venduto milioni di copie in tutto il mondo, ottenendo un successo strepitoso, ma sinceramente non convince più di tanto. E’ inutile nascondersi che con Back In Black il gruppo ha raggiunto il massimo per lo stile sin qui seguito.” (27)  E a distanza di qualche mese ci va giù piuttosto piatto Gianluca Bassi su Ciao 2001 (34): “Alcuni hanno interpretato la freschezza di Back In Black come la vivacità di un’improvvisa agonia. In effetti il successivo For Those About To Rock non ha convocato i medesimi aggettivi. Goffo, ripetitivo e perfino insulso. Tuttavia è anche la conferma di uno stile, e non è poco.”

 

Il tour che seguì il disco fu caratterizzato dalla presenza sul palco del cannone che campeggia sulla copertina dell’album; l’idea era venuta ad Angus vedendo in tv le nozze di Carlo e Diana, che furono celebrate nel luglio del 1981 e durante le quali, come da tradizione, vennero sparate diverse salve di cannone: “Volevo qualcosa di forte, di virile, di molto rock’n’roll. E cosa c’è di più virile di un cannone? Insomma, lo carichi e quello spara e distrugge tutto.” (2)  Inizialmente avevano due batterie da sei cannoni ciascuna che uscivano da grandi scatole nel finale e sparavano. O meglio, avrebbero dovuto sparare, perché spesso si inceppavano e, comunque, quando funzionavano, spargevano scintille su tutto il palco, mettendo a rischio l’incolumità della band.  Per questo ad un certo punto ripiegarono su due soli cannoni, più grossi ed efficienti, che comunque gli procurarono più di qualche noia: in un’occasione in cui fecero sparare i cannoni nonostante il divieto dei vigili del fuoco furono addirittura arrestati.

 

Nella recensione del loro concerto all’Hammersmith Odeon di Londra, Abbà su Ciao 2001 rilevò che gli AC/DC avevano offerto “un centinaio di minuti di puro, brillante, veloce heavy metal. Molto più pesante dal vivo che su vinile, gli AC/DC mantengono per tutto il concerto un livello carismatico individualissimo. (…) Se c’è una critica da muovere al gruppo, questo è lo schema ferreo con il quale il concerto progredisce. Bello e emozionante, certo. Ma esattamente uguale alle decine di altri concerti e tours, con linee uguali da anni. Ogni passo è misurato, specialmente quelli di Malcolm Young e Mark Evans, le cui avanzate in primo piano hanno la efficiente meccanicità di cose già eseguite centinaia di volte.” (26)

 

In Italia erano ormai diventati famosissimi, come registrò con qualche sorpresa la rivista Music: “nipoti degnissimi della vecchia guardia heavy, stanno incontrando nel belpaese una passione ed un culto che, anche a livello di riscontro di pubblico, non avevano avuto nemmeno i mitici Zeppelin o i Deep Purple. (…) Superati di slancio anche i Van Halen.” (20)

 

Tuttavia il tour europeo non toccò la penisola e i fan italiani dovettero accontentarsi del film Let There Be Rock, ripresa di un concerto al Pavillion di Parigi della fine del 1979, con ancora Bon Scott alla voce che andò nelle sale nella primavera del 1982: “Se i loro dischi si assomigliano molto, diverso è il discorso dei concerti nei quali Angus Young e compagnia hanno parecchie cartucce da sparare. In uno spettacolo degli AC/DC non c’è l’ammiccamento sessuale dei Rolling Stones, non c’è la profonda cultura rock di Bruce Springsteen e non c’è nemmeno il fatuo piacere edonistico dei Queen: c’è invece la voglia di scaricare tutta e subito la rabbia generazionale e la carica espressiva che anima la più alta mitologia rock.” (23)

 

In un cinema negli USA Let There Be Rock fu visto anche da un imberbe Dave Grohl (successivamente leader dei Foo Fighters) che ne riportò un’impressione vivissima: “Quando ero in quinta elementare, avevo dieci anni credo, io e il mio migliore amico andammo a vedere quel film, Let There Be Rock. Non ero mai stato ad un concerto rock e non avevo mai visto un film rock e quel cazzo di film mi cambiò la vita, accidenti.  Era la prima volta che provavo la sensazione di alzarmi e fingere di suonare una chitarra immaginaria e ammazzare la maestra, spaccare i sedili del cinema, di tutto.  Adrenalina assoluta.” (3)

 

Ormai erano delle star, nella lista dei migliori 100 album di hard rock della storia pubblicata da Kerrang, bibbia dell’heavy metal, trovarono posto sette dei primi nove dischi del gruppo. Nei referendum della stessa rivista fecero anche man bassa di titoli: miglior gruppo, miglior chitarrista, miglior bassista, miglior concerto dal vivo e miglior singolo.  Terzo posto per Brian, secondo per il batterista e… secondo anche per Angus come miglior pin-up maschile (ehm…). Anche nei referendum di Hit Parader e Best (Francia) risultarono la migliore band.  E coerentemente con il loro nuovo status si concessero il lusso di rifiutare un’offerta da un milione di dollari per aprire per gli Stones perché avevano deciso che non sarebbero mai più stati il gruppo spalla per nessuno.

 

Nel pieno dell’apoteosi è ancora Federico Ballanti, nell’agosto del 1982, a scolpire un ritratto del gruppo di grande equilibrio: “Gli AC/DC possono essere definiti degli ottimi ‘interpreti’ del genere, non dei creatori o degli innovatori. Bisogna dire che la band è forse quanto di meglio oggi esista in fatto di concerti rock, per energia, potenza, carica, qualità dei musicisti, esperienza e gioventù (fattore non disprezzabile nel rock’n’roll). Ma si potrebbero citare moltissimi brani, a cominciare dal loro pezzo forte ‘Riff Raff’ tratto di peso da ‘Rock’n’Roll’ dei Led Zeppelin, in cui i canguri sfacciatamente ripropongono suoni e interi riff dei gruppi del passato, dagli Zeppelin agli Stones. Il risultato qual è? Non conta forse poi tanto l’inventiva o la genialità (il rock’n’roll è talmente elementare nei suoi fondamenti tecnici che è impossibile, o quasi, non ripetere cose già fatte in vent’anni di storia) quanto la qualità dell’interpretazione: oggi gli AC/DC incarnano meglio di chiunque quello spirito del rock che ha a lungo stazionato sui palchi ad opera di Keith Richards, di Mick Jagger, di Jimmy Page, di Pete Townshend, di Ray Davies, ecc. ecc.; gli australiani hanno raccolto il testimone e, facendo tesoro del passato, danno vita ad una grande band rock’n’roll. Ma il loro stile è profondamente ancorato a schemi che non sono loro, e che si limitano ad interpretare con rinnovato vigore e una dose di personalità più spiccata di tanti altri.” (24)

 

1983 – Flick Of The Switch

 

Nonostante il successo, gli AC/DC erano coscienti della minore qualità del loro ultimo lavoro e fu Malcolm, capo indiscusso della band, che, anche approfittando del credito ormai illimitato aperto dalla Atlantic, di fatto accentrò qualsiasi decisione.  E in omaggio al nuovo corso autarchico (venato di paranoia) di Malcolm, decisero di produrre in proprio il nuovo disco: “Non voglio sentir parlare di produttori per un pezzo. E’ gente capace soltanto di dare ordini e confondere le idee.” (40)

 

Dopo qualche iniziale prova all’Isola di Man, tornarono a registrare ai Compass Studios delle Bahamas: “Lo volevamo grezzo. Il nostro sound è sempre stato grezzo, lo volevamo semplicemente libero da riverberi ed effetti. Ci piace avere un suono di batteria naturale, non questa gigantesca e continua eco dappertutto. Noi cerchiamo di mantenere tutto grezzo e diretto, registriamo sempre tutte le tracce strumentali insieme, le due chitarre, il basso e la batteria. E’ l’unico modo con il quale si può ottenere quel risultato, quel feeling.” (Angus a Guitar Player (1))

 

“All’interno del gruppo era opinione di tutti che Back In Black fosse l’apogeo di come avrebbero dovuto essere prodotti gli AC/DC. For Those About To Rock aveva una produzione un po’ troppo eccessiva, rispetto allo spirito della band. Con Flick Of The Switch c’era un sincero desiderio di tornare alle origini. Avete presente la versione di Johnny Winter di Mannish Boy di Muddy Waters? Dove gridano tutti in sottofondo? Sostanzialmente Malcolm aveva detto che voleva cercare di creare quella sensazione di essere in una stanza dove succedeva di tutto. In realtà non credo che funzionasse un granchè.” (Tony Platt, uno dei tecnici del suono dell’album, (3))

 

 

Durante la registrazione del disco Phil Rudd, il batterista, venne estromesso, principalmente a causa dei suoi problemi con la droga, che si erano aggravati, comunque dopo una lite con Malcolm (che all’epoca beveva pesantemente anche lui).  Nel disco compare comunque, ma secondo alcuni le parti di batteria furono completate da BJ Wilson, dei Procol Harum (anche se non è chiaro se i contributi di quest’ultimo furono utilizzati: secondo (2) BJ Wilson fu chiamato per un’audizione volta alla sostituzione di Rudd, ma arrivò troppo ubriaco per suonare e fu rimandato a casa).

 

Gli AC/DC furono soddisfatti del risultato dei loro sforzi: “Abbiamo finalmente creato un disco grezzo, cupo, senza inutili raffinatezze. Insomma, cercavamo qualcosa che fosse agli antipodi rispetto a quel tipico suono ‘all’americana’. Non ci piace perdere ore alla ricerca di chissà quale ispirazione. Basta inserire il jack nell’amplificatore e cominciare a suonare.” (40)

 

Ma la scelta di non affidarsi ad un produttore professionista, assai percepibile nella minore rotondità del suono, ha destato qualche perplessità nella critica, ben riassunta da Ben Mitchell (96): “Flick Of The Switch è il risultato di questa decisione. (…) Il disco sembra chiaramente messo insieme alla svelta e manca la cura artigianale kubrickiana di Mutt Lange. Il problema non è l’audio non amalgamato, perché un po’ di detriti non disturbano mai in una canzone degli AC/DC, il problema è che le canzoni non sono eccezionali. Il materiale svaria dal debole (Bedlam in Belgium, Nervous Shakedown) all’accettabile (Guns For Hire, la title track, Badlands) passando per il noioso (Rising Power, Deep In The Hole). (…) Un cambiamento rispetto a Lange non era necessariamente sbagliato, ma non avere un produttore forte che fosse in grado di assicurare che gli AC/DC ce la facessero era sicuramente un errore.”   

 

Se For Those About To Rock era stato un peccato di superbia, come se gli AC/DC, inebriati dal successo di Highway To Hell e Back In Black, si fossero convinti che qualsiasi cosa avessero fatto avrebbe avuto la stessa qualità. Flick Of The Switch è un disco di transizione.  Ci sono diverse cose buone, come l’eccellente lavoro delle chitarre su This House Is On Fire o la title track.  E’ suggestivo anche il riff di chitarra a scalare di Nervous Shakedown; bello l’attacco di Guns For Hire, che poi si sviluppa anche bene, mantenendo un bel ritmo tirato senza trascurare la melodia; Bedlam In Belgium è priva di guizzi, ma si lascia ascoltare grazie alla buona performance strumentale; ottimo il tappeto chitarristico di Badlands, sia in fase ritmica che nel bell’assolo. E tra le buone notizie anche la constatazione che la voce di Brian è decisamente meglio integrata nella musica, lui sembra sforzare meno e si amalgama bene con il resto del gruppo.  Ma nulla in questo disco è indimenticabile, ed infatti nessuno dei suoi brani è entrato a far parte dei classici del gruppo.

 

Come ormai tradizione la critica si divide tra gli irriducibili fan della band, per i quali è peccato mortale sollevare qualsiasi dubbio sulla qualità di qualsiasi cosa made by AC/DC e i non militanti, che, quasi per reazione, spesso mostrano i segni di un pregiudizio nei confronti degli australiani. Di seguito un florilegio tratto da recensioni dell’epoca o riflessioni successive sul disco.

 

Claudio Gentile su Tuttifrutti (31): “Questo disco è bello, bellissimo, ma forse è meglio se ce lo sentiamo. (…) E questo vi esorto a fare, mettete sul piatto questo 33 e abbiate il coraggio di impazzire, dimenticate tutto quanto potete dimenticare, imbracciate le vostre fender fantasma e dategli sotto.”

 

Neil Perry su Vox, nel 1994 (77): “Il controllo di qualità è andato a farsi benedire per questo disco, stanco e faticoso canto funebre con le urla stridule di Brian Johnson a rimpiazzare con delle grossolane allusioni le sardoniche storie di strada di Bon Scott” (Voto 2/10).

 

Pierfrancesco Atzori su Rockstar (32): “Un album che, al confronto con i predecessori, mostra in misura spietata limiti e assenza di novità. Le dieci canzoni si riducono, infatti, a stanche continuazioni di temi già sfruttati e non è difficile considerarle dei poveri scarti assemblati alla meno peggio per ovviare a problemi di scadenze contrattuali. Se rimane merito essenziale della band aver applicato alla cadenza heavy rock un tempo finalmente ballabile, non per questo si può giustificare la ripetizione della stessa formula all’infinito. Qui invece dall’inizio (Rising Power) alla fine (Brain Shake), è esattamente possibile sapere come si evolverà la canzone, quando entrerà il coro e così via.” (voto: **).

 

Sebastiano Zampa sul Mucchio Selvaggio (33): “Indubbiamente questo Flick Of The Switch (come del resto i precedenti lp) offre il fianco alle critiche di chi potrebbe tacciare il quintetto di cristallizzazione musicale e di mancanza di volontà nella ricerca di nuove soluzioni sonore; tuttavia, se è vero che il suono degli AC/DC non ha subito sostanziali mutamenti nell’arco dell’intera produzione vinilica, è anche innegabile che esso negli anni non ha mai mostrato cenni di stanchezza o di sterilità a livello compositivo, disgrazia che invece, alla lunga, sembra colpire la maggior parte delle hard-rock band più longeve, le quali troppo spesso tentano di nascondere la crisi di idee dietro il fragile schermo dell’innovazione. (…) I brani contenuti sono 10, tutti di ottimo livello, tra i quali spiccano i trascinanti Rising Power, Nervous Shakedown, Landside e Deep In The Hole”.

 

Gianluca Bassi su Ciao 2001 (34): “Il loro nuovo album valica la prevedibilità degli ultimi episodi sottolineando la personalissima concezione interlocutoria dei riff. Bedlam In Belgium, This House Is On Fire e Deep In The Hole sono strutturati proprio in questa maniera, una visione continuativa dell’inciso. (…) Questo nuovo disco, pur non esaltando le doti di Angus Young, ha abbastanza fiato per ossequiare l’industria spettacolare, assaggiare tonalità vagamente epiche nella solenne Guns For Hire e rinnovare quell’interlocuzione emotiva col pubblico che ha reso famoso Angus. Non sarà indimenticabile – l’arteriosclerosi ha subito soltanto delle gomitate – eppure si intravede ancora il diavolo. Benone.” (34)

 

Federico Ballanti, su Ciao 2001 (35): “Il massimo livello di energia e autoesaltazione. Questo è il nuovo album degli AC/DC. Il linguaggio del gruppo è sempre più schematico, geometrico. La sintassi scarna, eppure l’effetto è sempre più efficace.”

 

Infine, Mick Wall, nella sua biografia degli AC/DC (2): “Dal punto di vista dei testi si tratta dell’album più terra terra della band, a metà tra bravate scontate e tediose metafore sull’artiglieria: il divario tra Johnson e Scott non era mai stato così dolorosamente marcato. Il sarcasmo e la malizia di Bon avevano colorato i testi degli AC/DC con un che di magico e imprevedibile. I testi di Brian, invece, erano il riflesso del suo aspetto fisico, con quei grossi bicipiti e il berretto calato sugli occhi che suggerivano forza fisica e ottusità. Persino le sue metafore sembravano letterali. Certo è che non c’è un pezzo che sopravviva ad un ascolto ripetuto. Non solo non avevano raggiunto le vette dei tre precedenti lavori con Mutt, ma non c’era neanche niente all’altezza degli album che avevano forgiato la loro reputazione con Bon.”

 

Non c’è da stupirsi del fatto che la Atlantic non credesse troppo nel disco e, quindi, mettesse insieme una promozione piuttosto blanda. E non fu una sorpresa il poco successo riscosso da Flick Of The Switch, neanche per i membri della band, tanto che Malcolm ebbe a dichiarare: “L’abbiamo realizzato davvero in fretta, credo sia stata una reazione a For Those About To Rock. Pensammo solo ‘fanculo, ne abbiamo abbastanza di questa merda’. Nessuno era dell’umore per trascorrere un altro anno intero a lavorare su un disco, così decidemmo di produrcelo da soli e di assicurarci che fosse grezzo come solo gli AC/DC possono essere”.  Il disco vendette comunque 500.000 copie (disco di platino), ma a peggiorare l’umore di Malcolm il disco nello stesso periodo prodotto da Mutt Lange, Pyromania dei Def Leppard, vendette 10 milioni di copie...

 

La verità è che gli AC/DC erano sempre uguali a sé stessi, nel bene e nel male, con maggiore o minore qualità (nel caso degli ultimi due dischi sicuramente minore), ma fermi nella loro fedeltà al boogie, al rock’n’roll, all’hard rock, e con convinzione, come sostenne, a fronte della consueta accusa di essere ripetitivi, Brian Johnson: “Anche Strauss era ripetitivo con i suoi valzer… A noi non piace seguire le regole del gioco, facciamo poche interviste, decidiamo quando fare uscire i singoli facendo strappare i capelli alla casa discografica che ci vuole imporre determinate scadenze” (38).

 

Solo che intanto stavano cambiando i tempi, come ha riassunto magistralmente Ken Mc Intyre su Classic Rock (95): “Gli AC/DC erano, sono e resteranno per sempre un gruppo anni ’70 (…). Se gli anni ’70 fossero durati per sempre, dischi come Flick Of The Switch sarebbero stati ok. (…). Gli anni ottanta non sono iniziati nel 1980. Nessuno può dire con certezza quando sono scattati, ma sta di fatto che una mattina ci siamo svegliati in un mondo illuminato da un neon rosa, pieno di Boy George e sintetizzatori e cubi di Rubik, e non potevamo farci nulla. All’improvviso, tutto quello che sapevamo del rock era sbagliato. I jeans erano out, la new wave era in, il glam era diventato metal e il metal era diventato Metallica e nessuno voleva ascoltare delle stronzate vecchio stile rock’n’roll suonate da musicisti dai capelli lunghi, vestiti di jeans e senza trucco. Il che era una grossa disdetta, perché gli AC/DC in realtà non erano in grado di suonare niente di diverso.”

 

A proposito di membri della band, gli australiani dovevano risolvere il problema del batterista dopo la giubilazione di Phil Rudd e, al loro ritorno in Inghilterra, lo fecero pubblicando un annuncio anonimo su Sounds: “Cercasi batterista heavy rock. Se non picchiate forte non rispondete”. Con questo sistema selezionarono un ventenne britannico, Simon Wright (nato a Alden, vicino Manchester, il 19 giugno 1963), che aveva suonato nei Titan e negli A to Z.  Lui cavallerescamente, rese omaggio a Phil Rudd: “Si è scavato una sua nicchia. Era così mirato. Così solido e pesante. In alcuni momenti era difficile credere quanto fosse misurato. Questo condizionò il mio modo di suonare: se avessi cominciato a riempire dove Phil ometteva di farlo sarebbe sembrato proprio sciocco, visto che il modo di suonare di Phil è parte integrante del loro sound. E io ho avuto il buon senso di capire subito che se avessi cominciato a strafare, non avrebbe funzionato. Può essere un modo di suonare difficile, stancante; può sembrare semplice ma non lo è. Perché tu vorresti lasciarti andare, scatenarti, ma ti devi frenare. Devi conferire il giusto swing a quei pezzi.” (2)

 

Lo circondava un certo scetticismo… Su Ciao 2001, a settembre, Piergiorgio Brunelli, riassumendo il momento no della band, scrisse: “Il loro tour americano è stato un fallimento e grossa è stata la delusione per Simon Wright, il nuovo venuto alla batteria, che in primavera è stato visto più volte affogare le amarezze in una pinta di birra in qualche club londinese.” (38)

 

1984 – ’74 Jailbreak

 

La crisi che si era abbattuta sugli AC/DC proprio nel momento di massimo successo era del tutto inaspettata ed il gruppo faticava a farvi fronte.  La consueta tournee americana seguita alla pubblicazione di Flick Of The Switch dette esiti mediocri, coerenti con quelli dell’album, e Malcolm, adottando l’approccio di quei presidenti di squadre di calcio che quando le cose vanno male  licenziano l’allenatore, dette il benservito al manager Ian Jeffery sostituendolo con Crisping Dye, ex-dirigente della Albert.

 

Come riempitivo, per una sorta di horror vacui, viene dato alle stampe ad ottobre del 1984 ’74 Jailbreak, un minialbum con cinque canzoni già uscite in Australia dieci anni prima, ma mai nel resto del mondo.

 

In realtà l’anno trascorse probabilmente in riflessioni, delle quali qualche traccia si trova in un’intervista a Musician (37) nella quale ripeterono varie volte l’espressione: “non ha niente a che fare con il rock’n’roll” per stroncare i Kiss, o i Van Halen o tutto quello che non gli piaceva e si difesero orgogliosamente dalla ricorrente accusa di essere dei conservatori sempre uguali a sé stessi: “Noi non abbiamo mai messo nulla di diverso nei nostri dischi, solo chitarre e batteria. Non abbiamo mai cercato di espanderci. Altri gruppi suonano la disco o usano sintetizzatori o fanno quella roba alla Bowie, che è disco con un po’ di blues. Lo sapremmo fare, ma non ha niente a che vedere con il rock’n’roll” (Angus).  E anche in un’altra intervista a Ciao 2001 (36) Angus ci scherzava su: “I Rolling Stones sono dei bugiardi, secondo loro abbiamo inciso dieci album tutti uguali.  Non è vero, ne abbiamo registrati solo otto… tutti uguali.”

 

Per gli appassionati di dettagli tecnici, nel corso dell’intervista a Musician Malcolm rivelò anche di aver suonato in tutti gli album, sin dal primo, sempre la stessa e unica chitarra, una Gretsch Firebird, mentre Angus ha utilizzato diversi esemplari di uno stesso modello, la Gibson SGs.

 

Ad agosto furono gli headliner per la seconda volta al Monsters Of Rock di Donington (i primi a bissare questo ruolo). A settembre fecero quella che è forse la loro prima comparsa in Italia per un concerto a Nettuno nell’ambito di una rassegna rock che aveva visto sul palco anche Stevie Wonder e Ultravox, mentre gli AC/DC furono introdotti dai Motley Crue.

 

1985 – Fly On The Wall

 

La reazione degli AC/DC al periodo di crisi, tanto più difficile da affrontare in quanto arrivato inaspettatamente, quando ce la avevano finalmente fatta a raggiungere i vertici, fu l’unica possibile per un gruppo che aveva fatto della logica di clan, con una vena paranoica, la propria forza: si chiusero nel loro guscio e si buttarono a capofitto nella preparazione del nuovo album.

 

Le registrazioni di Fly On The Wall iniziarono nell’ottobre del 1984 ai Mountain Studios di Montreaux e ancora una volta si auto-produssero, scelta discutibile visto il modesto risultato del disco precedente, ma coerente con lo spirito sopra richiamato: “Volevamo guadagnare un po’ di più con questo album, così l’abbiamo di nuovo prodotto da soli, ma mettendo un po’ più di tempo e cervello in ciò che stavamo facendo, invece di registrarci semplicemente e basta.” (Malcolm, 1), ma il nuovo arrivato, Simon Wright, alla prima esperienza in studio di registrazione con gli AC/DC e con uno sguardo evidentemente meno influenzato dalle logiche interne della band, la vedeva diversamente: “Cominciammo a jammare durante le prove e i pezzi hanno cominciato a prendere forma.  E’ nato tutto mentre suonavamo, senza starci a rimuginare troppo, perché non è così che funziona. Loro suonano e basta. Non si fermano ad analizzare le cose, chiedendosi se funzionino o meno.” (2)

 

Su di una cosa Wright aveva sicuramente ragione: gli AC/DC non si facevano condizionare da ragionamenti commerciali e non adattavano il loro modo di suonare ai mutamenti delle mode. Tetragoni a qualsiasi pressione, forse incapaci di fare altrimenti, andavano dritti per la loro strada e se i tempi non erano recettivi per la loro musica, peggio per i tempi: loro avrebbero atteso che tornasse il loro turno. Concetto espresso da Angus in un’intervista al Ciao 2001 del 1985: “Sono il responsabile del suono impostato sulla chitarra di Fly. Noi non facciamo musica per far piacere ai discografici, loro non comprano i nostri dischi: sono i kids le persone a cui pensiamo. Loro vogliono sentire un prodotto AC/DC e noi glielo diamo. E poi che disco sarebbe se non suonasse alla AC/DC? Noi non sembriamo nessuna altra band e non usiamo tastiere di riempimento o chitarre acustiche. Io non riuscirei ad imitare lo stile di Eric Clapton o quello di Jimmy Page, suono come Angus Young e cerco di farlo il meglio possibile.” (43)

 

Fly On The Wall uscì il 28 giugno 1985 con una copertina disegnata da Todd Schorr, un artista pop.

 

Il disco segnava una sia pur timida ripresa rispetto alla precedente opaca prova, anche se nessuno dei brani inclusi nella raccolta era destinato ad entrare nel novero dei classici degli australiani: la title track, per esempio, è piuttosto anonima, mentre Shake Your Foundations mostra una buona capacità di coniugare melodia ed energia; First Blood è anch’essa buona,  grazie soprattutto al vertiginoso assolo di Angus; Danger si muove su cadenze inusuali, con una lunga sospensione ritmica di Malcolm che si apre sul ritornello; Stand Up è poco più che un ritornello corale, ma alla fine resta nelle orecchie, così come Hell Or High Water: canzoni senza alcuna personalità, ma che spingono comunque a muoversi e si fanno cantare in coro; appena un po’ più originale Send For The Man. Non a caso nessuna delle canzoni incluse nel disco compare nella classifica delle prime trenta degli AC/DC compilata da Classic Rock (94).

 

Il riscontro della critica, seppur con alti e bassi, fu migliore rispetto a Flick Of The Switch, che aveva un po’ appannato l’immagine del gruppo.

 

Aldo Bagli su Ciao 2001: “Rispetto alle precedenti prove questo nuovo album si fa notare per uno spiccato (ma non del tutto inedito) gusto per il dark: gli stessi suoni delle due chitarre (in mente gli Stones, non i Led Zeppelin) hanno qui inediti toni oscuri, anche quando i temi trattati come Playing With The Girl richiederebbero forse una maggiore spensieratezza.” (41)

 

Pierfrancesco Atzori su Rockstar: “Flick Of The Switch ha costituito l’episodio finale di una caduta a capofitto nel ridicolo. Il recente Fly On The Wall cerca di recuperare il terreno perduto e lo fa con una certa convinzione. (…) Malcolm Young, il vero cervello pensante della band, deve aver capito la necessità impellente di uscire da schemi ormai soffocanti. Sink The Pink, con la sua melodia frastagliata che non si esaurisce nel canonico inciso centrale, è un perfetto esempio di quanto detto. Shake Your Foundations e Back In Business si muovono su binari più tradizionali, eppure anche qui si percepisce fra le righe un discorso diverso.” (42, voto ***)

 

Si fa un po’ prendere la mano Rupert su FareMusica: “Fly On The Wall è il miglior album degli AC/DC da tempo immemore! Bisogna ritornare a quando c’era ancora il compianto Bon Scott (vedi Highway To Hell), per ritrovare un livello di compatta tonitruanza tale quale erompe da questi solchi. (…) Evidentemente Brian aveva bisogno di una maturazione che è stata lenta ma costante e che, finalmente, è arrivata ad ultimarsi in questo armageddon implacabile. Dalla title track a First Blood, da Stand Up a Back In Business è tutto un uragano di turbolenze sonore e tonsillari che straripa, senza pietà, da una vera e propria pietra miliare dell’hard rock. Fly On The Wall: un efferato punto di riferimento per le generazioni di rockers presenti e future.” (44)

 

Se Ken Mc Intyre, che scrive molti anni dopo su Classic Rock, rappresenta le generazioni di rockers future, il giudizio di Rupert suona avventato: “Sfortunatamente Fly On The Wall è insulso dall’inizio alla fine. (…) La produzione è spaventata ed esile. Le parti vocali di Johnson sono particolarmente maltrattate, tanto affondate nella musica da far pensare che stesse gridando da dentro il bagno mentre qualcuno gli teneva un panno caldo contro il viso. Caritatevolmente, si potrebbe dire che Sink The Pink e Shake Your Foundation rendevano bene dal vivo, ma nessuna delle due è rimasta nelle loro scalette per trent’anni. Danger è comodamente tra le canzoni più sventuratamente pigre che gli AC/DC abbiano mai concepito, ed è stata pubblicata come singolo di punta. (…) Anche le recensioni furono negative. Mentre Flick Of The Switch avrebbe potuto essere interpretato come un colpo sbagliato con le migliori intenzioni, questo disco era semplicemente imbarazzante.” (96)

 

Sebbene le critiche, almeno quelle dell’epoca, fossero state migliori del solito, Fly On The Wall vendette poco (mezzo milione di copie), la metà delle già poche vendute da Flick Of The Switch.  Per fare un esempio, in Francia, dove Back In Black aveva venduto un milione di copie, Fly On The Wall si fermò a 70 mila...

 

Più che per le proprie imprese musicali, in quell’anno gli AC/DC assursero all’onore delle cronache per vicende criminali, pubblicità della quale è presumibile che avrebbero fatto volentieri a meno. Il 31 agosto, infatti, fu arrestato un serial killer in California, Richard Ramirez, il quale al momento dell’arresto indossava una loro maglietta, aveva lasciato un cappellino con il loro brand sul cadavere di una delle sue sedici vittime (secondo (3) fu solo trovato un loro cappellino in casa sua) e, come se non bastasse, dichiarò di aver tratto ispirazione da Highway To Hell e in particolare dalla canzone Night Prowler.  Questo rinfocolò le accuse di satanismo che inseguivano gli AC/DC sin dai primi anni ottanta, con tanto di proteste delle associazioni cattoliche ai loro concerti (arrivarono ad interpretare il loro nome come acronimo di Anti-Christ / Devil’s Child, una bella fantasia…): “Non siamo satanisti e non facciamo magia nera. Non bevo sangue. Al massimo posso mettermi biancheria nera, e questo è tutto.” (Angus a Creem, (1)); e Malcolm a Kerrang: “Non riescono a capire che Night Prowler parla soltanto di entrare di soppiatto in camera di un paio di ex- ragazze e dargli una bella ripassata.” (difesa che letta oggi appare un salto dalla padella alla brace, ma negli anni ottanta, tre decenni prima dell’avvento del movimento Me Too, la sensibilità al riguardo era colpevolmente bassa... (3))

 

La vicenda ebbe grande eco negli USA, suscitando la reazione del Parental Music Resource Center, un’associazione volta alla protezione dei minori diretta da Susan Baker, moglie del segretario di stato James Baker, e da Tipper Gore, moglie dell’allora senatore del Tennessee e successivamente candidato alle presidenziali, Al Gore.  Il loro tour ne risentì molto, tra cancellazioni di concerti minacciate o attuate e altre forme di ostilità (a Springfield, dopo vari inutili tentativi di cancellazione del concerto, nessun albergo li accolse e furono costretti ad andare a dormire a 150 km di distanza, a St. Louis).

 

E’ naturalmente una tragedia che menti deboli possano spingersi ad azioni criminali affascinati da quelli che, almeno nel caso degli AC/DC, sono meri apparati scenici, superficialmente adottati per assonanza con un sound che sicuramente è più collegabile a contesti infernali che alla quiete che si suppone regni in paradiso.  Questo dovrebbe portare a riflettere sulle responsabilità che gravano su chi abbia modo di parlare a intere generazioni e sulla attenzione che bisognerebbe esercitare riguardo ai contenuti dei messaggi che vengono, talvolta con troppa leggerezza, diffusi. Ma questo è un argomento forse troppo impegnativo per un blog che ha l’unica ambizione di raccontare storie di musica, e quindi chiudiamo questo capitolo riportando il discorso sulla musica, con una dichiarazione di Angus in un’intervista al Ciao 2001 del 1985 (45), nella quale, una volta di più, traccia un netto confine tra l’heavy metal e la loro musica: “La vocalità naturale di Bon, ed ora quella di Brian, non hanno fatto altro che rendere più ruvide le nostre canzoni, così anche l’uso di una ritmica serrata ed utilizzata in funzione dinamica. Però, anche se l’effetto può apparire pesante, il nostro è solo rock’n’roll. A noi non è mai piaciuto molto l’heavy metal. Cerchiamo di essere semplici ed efficaci, ma anche raffinati. Certo, sul palco spariamo forte, ma il nostro non è mai un wall of sound. Per questo ci mettiamo tanto a concepire i nostri lavori.”

 

1986 – Who Made Who

 

A pagare lo scadente periodo di forma degli AC/DC è, ancora una volta, il manager (la metafora calcistica è sempre più calzante): Malcolm licenzia Ian Jeffery e lo sostituisce con Stewart Young (non parente), già con Emerson, Lake & Palmer (del periodo d’oro) e dietro il recente successo dei Tears For Fears.  Nonostante la provenienza da mondi musicali non proprio attigui a quelli degli australiani, il nuovo arrivato fa la cosa giusta, in fondo la più semplice: richiama in produzione George Young e Harry Vanda, il modo migliore per interrompere il fallimentare esperimento autarchico voluto da Malcolm con una soluzione comunque gradita e familiare, nel vero senso della parola, per i fratelli Young.

 

L’occasione non è un vero nuovo disco del gruppo.  Era accaduto che durante il tour promozionale di Fly On The Wall erano contattati da Stephen King che gli chiese di usare dei loro pezzi per la colonna sonora di Maximum Overdrive (in Italia “Brivido”), primo film in cui King si cimentava come regista, tratto dal suo racconto Camion, pubblicato sulla raccolta A Volte Ritornano.  Gli AC/DC scrissero una sola vera canzone per il film, Who Made Who, che però era di gran lunga la cosa migliore che gli AC/DC avessero partorito dai tempi di Back In Black e che, infatti, divenne rapidamente uno dei loro pezzi più popolari.  Per il resto l’album, che sostanzialmente era la colonna sonora di Maximum Overdrive ma che fu intitolato Who Made Who, registrato in sole due settimane, conteneva solo altri due inediti (gli strumentali D.T. e Chase The Ace) e sei brani già pubblicati in precedenza, uno dei quali, Shake Your Foundations, in versione remixata.

 

Who Made Who fu senz’altro un’operazione bislacca, come giustamente fece notare Maurizio Becker sul Mucchio Selvaggio (50): “Who Made Who è un album che riesce difficile consigliare. Non perché sia brutto, piuttosto perché non ha una funzione precisa: non è il nuovo AC/DC, dato che di canzoni inedite ne sono presenti solamente tre, ma non può nemmeno valere come antologia, causa l’ovvia esclusione di tantissimi episodi che sarebbero necessari per farsi un’idea dell’attività del gruppo. Probabilmente la scelta dei pezzi è stata condizionata dalle sequenze del film di King, e così, accanto alle classicissime Hell’s Bells, For Those About To Rock, You Shook Me All Night Long, troviamo episodi chiaramente minori come Shakin Foundations e Sink The Pink; fra gli inediti salta all’occhio la esilarante title track, essendo gli altri due hard live strumentali buoni senza dubbio, ma meglio godibili in accoppiata con le immagini. Discorso a parte va fatto per l’intelligente repechage di un lontano gioiello, tanto atipico nell’ambito della discografia AC/DC quanto affascinante: parlo di Ride On (1976), uno struggente blues in cui Bon Scott, cantando ‘uno di questi giorni cambierò la mia vita sregolata’ fu purtroppo cattivo profeta di sé stesso.”

 

Pur tuttavia l’importanza del disco nella carriera degli AC/DC è superiore alla sua qualità intrinseca; forse in quel momento non avevano le forze o la fiducia necessaria per affrontare la pubblicazione di un lp, ma mettere insieme un nuovo brano finalmente all’altezza della loro fama con alcuni storici brani del loro repertorio era un potente modo per ristabilire la posizione degli AC/DC agli occhi dei loro fan e mettere le basi per il lavoro futuro.  Forse proprio per questo il disco ebbe molto più successo rispetto agli ultimi, arrivando al no. 11 in UK e al no. 33 in USA.  Al contrario il film andò malissimo, negli USA incassò la miseria di 7,5 milioni di dollari.

 

Ken Mc Intyre su Classic Rock lo ricorda così: “Maximum Overdrive non era un capolavoro, ma rivitalizzò la carriera degli AC/DC. Who Made Who era la colonna sonora di uno stupido film horror, ma è anche una compilation di brani classici degli AC/DC, perfetto per allevare una nuova generazione di eroi e perdenti teenager a base di semplici e piacevoli riff.  E’ difficile descriverlo altrimenti che come un’antologia monca, visto che contiene brani cruciali da Back In Black (Hells Bells, Shook…), For Those About To Rock (la title track), Dirty Deeds (Ride On, ok, scelta eccentrica, ma comunque…) e, ehm, Fly On The Wall. Who Made Who – la canzone - funzionava su diversi livelli. All’apparenza è semplicemente un classico riff’n’roll alla AC/DC, naturalmente duro e smargiasso. Ma il testo non soltanto rappresenta il tema uomo-contro-la-macchina, ma anche la statura rock’n’roll della band in quel particolare torno di tempo. La canzone fu un discreto e sorprendente successo e quando la gente si rese conto che la colonna sonora era anche una compilation di successi degli AC/DC, volò via dagli scaffali dritto verso il platino, cinque volte alla fine.” (97)

 

A supporto dell’album uscì anche un DVD dallo stesso titolo contenente alcuni brani filmati (male) dal vivo e dei video di non eccelsa fattura per un totale di soli 24 minuti (71).

 

Nel tour che seguì Who Made Who era la canzone di apertura dei concerti; lanciarono anche un memorabile concorso tra i loro fan e i vincitori vennero vestiti con l’uniforme da scolaretto di Angus e portati sul palco a precedere l’arrivo del vero Angus (un’idea che riprende la analoga coreografia del primo vero video da loro realizzato in MTV style, con David Mallet, che aveva fatto dei pregevoli lavori con Bowie): non sorprendentemente molti dei finti Angus si rivelarono restii a lasciare il palco quando avrebbero dovuto e furono portati via a forza…

 

1988 – Blow Up Your Video

 

Quando gli AC/DC fecero il loro ingresso nei Miraval Studios di Le Val, in Francia, per registrare Blow Up Your Video, agosto 1987, erano trascorsi due anni dalla pubblicazione del loro ultimo vero disco, e si sarebbe arrivati vicini ai tre prima che l’album uscisse, nel gennaio del 1988. Una distanza inusuale per un gruppo che aveva in precedenza sfornato, con discreta puntualità, un lp all’anno, ma che di lì innanzi si sarebbe ulteriormente dilatata, con lunghe attese da un lavoro all’altro.  Anche per questo, ma non solo per questo, Who Made Who fu il vero spartiacque tra la prima e la seconda parte della carriera degli AC/DC: dopo aver toccato le stelle con Highway To Hell e Back In Black ed essere precipitati nelle stalle con Flick Of The Switch e Fly On The Wall, con Blow Up Your Video gli AC/DC cominciarono la risalita che, anche se non avrebbero più raggiunto le vette dei due capolavori (almeno fino ad oggi, mai dire mai...), li avrebbe riportati su ottimi livelli.

 

Intendiamoci, Blow Up Your Video è un disco poco più che sufficiente, ma è connotato da una solidità che era andata persa nelle ultime fatiche del gruppo.  Così come per Who Made Who, i fratelli Young si affidano alle familiari mani di George Young e Harry Vanda per la produzione.  Furono registrate 19 canzoni, ma solo dieci furono poi pubblicate sul disco.  Per la promozione furono realizzati tre video, sempre con la regia di Mallet.  Come apripista fu pubblicato il singolo Heatseeker, il 4 gennaio 1988; l’album seguì due settimane dopo.

 

Il titolo dell’album fu spiegato così da Malcolm ad una tv giapponese: “Vuole essere un commento ad una generazione di appassionati di rock incollata a MTV: l’idea è di tirare i ragazzi fuori di casa. Non guardate la tv, venite a vederci in carne e ossa.” (98)  Battaglia persa, Malcolm, stavano per arrivare telefonini e social...

 

Brian Johnson invece si soffermò sui brani del disco: “La mia canzone preferita in questo album è That’s The Way I Wanna Rock. Non è particolarmente intelligente, ma è semplice e va dritta al punto. Credo che Heatseeker, Meanstreak, This Means War siano ottime. Le mie preferite sono comunque This Means War, appunto, e Two’s Up. Quest’ultima non è forse la canzone più bella dell’album, ma è la mia preferita per le parole, ne sono molto orgoglioso.” (52)

 

Heatseeker è un buon brano, ma sembra imparentato con quelli comparsi negli ultimi due dischi, bollente ma abbastanza convenzionale. Ben equilibrata That’s The Way e in Meanstreak il gioco ancora funziona, anche grazie al cambio di ritmo, ora più sincopato, ed agli assoli di Angus (molto meno visibile del solito nei primi due brani), ma la qualità compositiva è modesta. La meno nota Nick Of Time è una bella fiammata in apertura del secondo lato, tirata e senza grasso sui fianchi; Ruff Stuff appartiene a quello che io definisco il repertorio americano degli AC/DC, con il più classico dei riff di chitarra e un’ottima energia, che si ritrova anche in Two’s Up, più articolata delle ultime canzoni del gruppo, di pregevole fattura.

 

Come è normale che accada (in fondo le recensioni sono opinioni e la materia artistica in generale non si presta alle certezze), ma accade con notevole frequenza con gli AC/DC, le reazioni della critica spaziano dalle semi-stroncature alle semi-esaltazioni.  Vediamone alcune.

Giancarlo Trombetti su Tuttifrutti: “Blow Up Your Video è il disco più elettrizzante che gli AC/DC ci abbiano proposto da anni a questa parte ed anche se le ‘nuove tendenze’ sono su tutt’altra strada, è sufficiente alzare un po’ il volume per essere irresistibilmente costretti ad alzarsi dalle proprie sedie per saltare e ballare. Se non dovesse succedere anche a voi i casi sono due: o siete sordi o siete stupidamente prevenuti.” (53)

 

Efficace la metafora gastronomica di Marco Lucchi su Ciao 2001: “Un nuovo album degli AC/DC è come un supplì comprato nella vecchia pizzeria sotto casa: buono, a meno che la mozzarella non sia andata a male. In questo caso la mozzarella è di prima qualità e gli anglo-australiani sfornano (visto che siamo in tema) la loro miglior pizza dal tempo di For Those About To Rock. (…) Intendiamoci, novità clamorose non ce ne sono, ma alcuni riff sono più irresistibili di una coca-cola fredda a ferragosto. Ruff Stuff, per esempio, That’s The Way I Wanna Rock’n’Roll, per non parlare di This Means War, capace di far sudare anche a venti sotto zero.” (54)

 

A dimostrazione della relatività delle valutazioni critiche, divertitevi a confrontare i giudizi di Cristiano Gentili su Fare Musica e di Stefano De Leonardi su Mucchio Selvaggio. Entrambi tracciano una linea di confine tra le due facciate del long playing ma l’esercizio approda a risultati un po’ diversi...

 

“L’ascolto della prima parte di questo lp fa venire in mente proprio il loro ultimo lavoro: i quattro mancano di entusiasmo, i pezzi non deflagrano, il tutto suona come una brutta copia di quanto anni addietro era stato semplicemente incredibile. Insomma, la parabola discendente cominciata con Flick Of The Switch sembra compiersi, una volta per tutte. Poi, inaspettatamente, ecco arrivare il lato B: Angus torna quella forza della natura che ha sconvolto le menti di tantissimi sul declinare degli anni ’70, la band torna a descrivere riff al cui cospetto è patetico erigere difese, l’abulia è scomparsa e fuochi pirotecnici si accendono a ogni solco. (…) Un disco che lascia interdetti, che non si sa bene come spiegare: due dischi in uno, quasi insopportabile il primo, divertentissimo il secondo. Che con la seconda facciata sia cominciata la risalita dei grandi AC/DC?” (55)

 

“Certo ascoltando questo Blow Up Your Video non è che ci sia da stare molto allegri. La copertina, veramente bruttina, non preannuncia nulla di buono. (…) Trovare qualcosa di buono in questo disco è impresa veramente ardua. Tutto scorre via senza quasi lasciare traccia, perdendosi in un mare di luoghi comuni e antichi clichè.  Se la side one riesce a malapena a rimanere a galla, grazie soprattutto ai primi tre brani, la seconda sprofonda precipitosamente a picco, proponendoci una sequenza senza idee né mordente. (…) Brian Johnson, se già prima si sforzava parecchio per stare allo stesso livello del compianto Bon Scott, dimostra ora di non essere assolutamente all’altezza del suo predecessore, e la sua stridula voce rischia spesso di diventare alquanto fastidiosa. Ed anche il buon Angus Young, da parte sua, pur avendo ridotto il numero degli assolo (che avrebbe anche potuto essere una buona idea) sembra decisamente giù di corda. In generale un lavoro sottotono rispetto allo standard abituale del gruppo.” (56)

 

Il compito di fare sintesi lo lasciamo al solito Ken Mc Intyre che su Classic Rock a distanza di trent’anni dall’uscita del disco poteva esercitare il senno di poi: “Il ritorno degli AC/DC era largamente poggiato su due o tre canzoni. Per farla breve, se percorrendo la discografia degli AC/DC saltaste dal 1981 a Razor’s Edge del 1990 non vi perdereste molto. Anche se vi perdereste Heatseeker, e sarebbe un peccato. Insieme al secondo singolo That’s The Way I Wanna Rock’n’Roll, Heatseeker era il brano di punta del disco. (…). Tuttavia Blow Up Your Video non era un grande disco. A parte quei due brani è per la maggior parte una scarpinata tra brani abbastanza banali. E questa è la vera differenza tra i grandi album degli AC/DC (High Voltage, Highway To Hell, Back In Black) e quelli non così grandi (Flick Of The Switch, Fly On The Wall e questo): quelli buoni sono tutti brani killer, senza riempitivi.” (97)

 

L’accoglienza del pubblico fu meno tiepida, in UK, per esempio, Heatseeker arrivò al 12° posto nelle chart e l’album addirittura raggiunse il secondo posto.

 

L’attività concertistica che seguì la pubblicazione dell’album fu, come di consueto, intensa: Il tour cominciò con sedici date in Australia, completamente sold out, poi, dopo una breve tappa europea, il tour americano, nel quale Malcolm si fece sostituire dal nipote Stevie Young, che suonava negli Starfighters.  In realtà Malcolm si prese un anno di pausa per disintossicarsi dalla sua dipendenza dall’alcol: all’epoca pare che bevesse una bottiglia di vodka al giorno. Stevie, che avrebbe preso il posto dello zio anche venticinque anni dopo, quando la vita sregolata presentò il conto a Malcolm cui fu diagnosticata una forma di demenza precoce assomigliava a Malcolm, sia fisicamente che come modo di suonare, tanto che ben pochi si accorsero della assenza del leader e gli stessi AC/DC non fecero nulla per sottolinearlo.

 

Nonostante un’assenza così importante, il tour fu un successo, sul quale non molti avrebbero scommesso dopo gli scarsi risultati di Fly On The Wall e Flick Of The Switch, superando i 20 milioni di dollari di incassi.  Giustamente ha notato Paul Elliott (98) che in quel periodo gli AC/DC, pur non avendo in nulla cambiato il loro approccio alla musica, stavano tornando di moda perchè un po’ forse stava esaurendosi la vena new wave degli anni ottanta a favore di un ritorno al rock, sia pure più in versione power-pop e un po’ per lo status di classici del genere che, oltre che dai fan, gli veniva riconosciuto da molti dei gruppi emergenti (Elliott ricorda i tributi di Guns’n’Roses, Cult, Metallica). Peraltro, con implicita sconfessione del loro ultimo periodo, i concerti erano incentrati sui loro brani storici, tanto che, controintuitivamente, la scaletta base conteneva solo due pezzi dall’ultimo disco (112).

 

Raccontando un loro concerto al Palais de Beaulieau di Losanna Katia Natola scrisse (57): “Sul palco volteggiano 10 Angus, tutti falsi, quello vero infatti viene fuori da una specie d’ascensore tra fumi e fiamme. Sono unici, sono i più grandi! Sono l’essenza del rock’n’roll! Il palco è spoglio, essenziale: Malcolm Young, Cliff Williams e Simon Wright sono in fondo, a cinque metri buoni da Brian Johnson, che sta vomitando l’anima nel microfono. Questo immenso vuoto serve ad Angus per le sue scorribande: non è l’ossesso di qualche anno fa, ma il suo dimenarsi è ancora impressionante”.

 

In quel periodo non era il solo Malcolm ad essere alle prese con problemi personali: Brian passò attraverso un difficile divorzio dalla moglie Carol, tanto che quando Malcolm e Angus cominciarono a lavorare alle canzoni per il nuovo disco lui non partecipò, alimentando voci di una sua possibile uscita.

 

1990 – The Razors Edge

 

Prima che gli AC/DC entrassero in sala di incisione lasciò il gruppo Simon Wright, il batterista, che, dopo aver accettato di suonare la batteria nel disco di Ronny James Dio Lock Up The Wolves, si unì in pianta stabile al gruppo.  Secondo alcuni la decisione di farne a meno sarebbe stata assunta da Malcolm dopo aver visto qualche concerto della band dalla parte del pubblico; più probabile che, come sostiene Wright, sia stato lui a lasciare, stanco della camicia di forza ritmica impostagli dagli AC/DC e forse anche dei lunghi periodi di inattività che in quel periodo cominciavano a caratterizzare gli australiani; al suo posto venne preso, per le registrazioni dell’album, Chris Slade (30 ottobre 1946), un esperto musicista gallese che dopo essere cresciuto con il connazionale Tom Jones aveva già suonato con gente del calibro di Gary Moore, Manfred Mann, Uriah Heep, Gary Numan, David Gilmour e i Firm di Jimmy Page. L’esperimento funzionò bene e Slade venne invitato a restare con il gruppo anche dopo il disco.

 

The Razors Edge fu inciso in due sessioni: prima cinque settimane nei Windmill Lane Studios di Dublino con George Young; poi, dopo che George aveva dovuto abbandonare per problemi personali, sei settimane ai Little Mountain Studios di Vancouver per la produzione del canadese Bruce Fairbairn (Loverboy, Blue Oyster Cult, Krokus, Aerosmith e Bon Jovi, per i quali aveva prodotto il mega-hit Slippery When Wet).  Il programma di Fairnbarn era “far suonare la band come gli AC/DC quando avevano diciassette anni” (102).

 

Brian commentò così il disco: “Abbiamo messo più carne al fuoco, e questa carne si chiama melodia. C’è stato da parte nostra un atteggiamento diverso in fase di composizione, che abbiamo cominciato separatamente io, Malcolm e Angus. E così quando ci siamo ritrovati per la prima volta per registrare, a gennaio del 1989, ci siamo accorti che il materiale che avevamo composto aveva in comune la particolarità di essere un po’ più melodico. Chiaramente il gusto americano di Bruce Fairbairn ha fatto il resto, nel senso che lui ha agito sulla confezione del 33, conferendogli quelle caratteristiche insite nel suo gusto. Comunque in studio abbiamo lavorato molto sulle melodie, curando particolarmente gli arrangiamenti.” (60)

The Razors Edge è un buon esempio di quello che gli AC/DC hanno prodotto nella seconda parte della propria carriera: opere di buon livello, con un suono potente, senza capolavori. Thunderstruck, ad esempio, è assai buona, un sound più pulito rispetto ai dischi immediatamente precedenti, ma non meno energia e un uso del coro meno stereotipato rispetto al passato; Angus suonò la intro con tutte le corde della chitarra, tranne il si, bloccate con il nastro adesivo. Thunderstruck è stato il primo singolo tratto dall’album e ne venne realizzato anche un video per la regia di David Mallet; la canzone rammenta la brutta esperienza passata dal gruppo quando in Germania il loro aereo venne colpito da un fulmine (70).

 

Moneytalks è un brano atipico, connotato da una ricerca della melodia che in passato, anche quando c’era, era soverchiata dalla violenza del trattamento strumentale; a proposito di questa canzone Angus raccontò: “Ci siamo ispirati a Donald Trump, alle apparenze luccicanti, la sindrome da yuppie. I soldi sono il grande spartiacque. Ma non è così dappertutto. In Europa pensano che la classe sia qualcosa con cui nasci; qui pensano che sia qualcosa che compri, insieme allo smoking. E’ la nostra piccola presa in giro, una stoccata allo stile di vita dei ricchi e della gente comune.” (68)

 

Razors Edge, sebbene su ritmi più cadenzati, riporta all’ispirazione originale degli australiani, ha detto bene chi ha definito il brano “demoniaco”; Brian, il cui contributo alla redazione dei testi di questo lavoro fu molto limitato rispetto al passato a causa delle distrazioni derivanti dal sanguinoso divorzio dalla moglie, che si consumò durante la preparazione del disco, ha attribuito alla title track significati importanti: “Credo che nel momento in cui l’ascoltatore sentirà il primo riff si renderà conto che stiamo parlando di noi, del mondo perennemente in crisi, del fatto che non si prospettano soluzioni a breve scadenza… vivere sulla lama del rasoio, è proprio quello che stiamo facendo oggi. Potrei dirti che il vero significato di Razors Edge sta nella linea sottile che divide la pace da una situazione precaria o di guerra. Speriamo che tale linea immaginaria si allarghi il più possibile fino a divenire una solida striscia di terra dove tutti possano camminare in pace.” (60)

 

Are You Ready ha una intro più solenne, da ballata, ma poi si trasforma rapidamente in un più classico brano degli AC/DC, con coro melodico e la voce di Bryan che si contorce, si arrotola, diventa chioccia, eppure tanto efficace…;  buono il riff di Shot Of Love, con Angus che duetta bene con Bryan; Let’s Make It è una delle migliori canzoni del disco, con una chitarra cadenzata e la voce di Johnson che finalmente si può distendere; menzione speciale per Mistress for Christmas che secondo Mick Wall (2) è il brano peggiore del disco e secondo Paul Brannigan (102) è il pezzo più brutto mai inciso dagli AC/DC; Rock Your Heart Out va segnalato solo per una inusuale linea ritmica funky.

 

Certo, nessuna clamorosa novità, ma per gli AC/DC questo non era un difetto, come affermò, tra il sarcasmo e l’orgoglio, Angus (70): “Qualche giornalista mi ha detto che fino ad oggi abbiamo inciso undici dischi tutti con la stessa roba dentro, io gli ho risposto che si sbagliava, perché Razors Edge è il dodicesimo ‘sempre con la stessa roba dentro’. Poi se ascolti la radio ti rendi conto che esistono migliaia di nostri imitatori.”

 

Facciamo la consueta carrellata sulle recensioni ricevute dall’album, partendo con quella di John Mendelssohn su Rolling Stone (62): “Con il suo coro da marcia della gioventù hitleriana, Moneytalks ricorda gli Slade (Johnson agli esordi della sua carriera era un clone del cantante degli Slade, Noddy Holder) producendo effetti deliziosi, mentre la title-track in stile Black Sabbath crea un’atmosfera di profonda premonizione. Are You Ready, esaltazione di un pandemonio notturno con cui i nostri eroi sembrano darsi da fare per la pubblicità di una birra, è tanto irresistibile quanto stereotipata, e guardate il fantasioso sincopato delle chitarre di Fire Your Guns.  Sebbene l’album sia probabilmente meglio di quanto sarebbe necessario per il loro pubblico, è di gran lunga meno convincente di quanto avrebbe potuto essere. (…) Con The Razors Edge gli AC/DC stabiliscono il nuovo record per la più lunga carriera senza lo straccio di una nuova idea.” (62 – voto **)

 

Mario Giugni su Ciao 2001 (61): “Pure Razors Edge, come molti dei precedenti LP del gruppo, è un album che parte e che arriva nella stessa direzione di sempre, con la sua inossidabile fedeltà a riffs continui e a ritmiche scandite che però raramente permettono di aprire le porte alla monotonia. Magari la produzione di Bruce Fairbarn conferisce all’odierno suono di Angus Young e compagni una maggiore pulizia rispetto al passato e Chris Slade è un batterista più rifinito del suo predecessore Simon Wright (per non parlare dello storico Phil Rudd), ma sin dall’iniziale e controverso Thunderstruck l’anima grezza degli AC/DC è bene in evidenza e la verve assolutamente trascinante del gruppo è subito in prima linea.”

 

Per Maurizio Becker, dalle colonne di Music, Razors Edge “ha l’ingrato compito di chiudere un periodo non proprio felice, iniziato sulla scia del boom di Back In Black e durato troppo a lungo per essere considerato una semplice defaillance. Naturale che gli australiani facciano marcia indietro verso quel sound sanguigno che li ha resi celebri: Thunderstruck, Fire Your Guns e la demoniaca title track fanno da possente terzina iniziale, Moneytalks gioca con savoir faire la carta insolita della melodia, il resto è un’orgia di boogie cadenzata e perfettamente in stile.” (63)

 

Infine Marcello Villella su New Rock Magazine: “Senza alcuna limitazione di potenza, senza alcuna concessione alle mode del momento, gli AC/DC sono pronti per la loro avventura negli anni ’90. Con un album di tale fattura e con una tournée mondiale alle porte, non abbiamo dubbi di vederli ancora tra i protagonisti. Chi ha detto che il metallo si arrugginisce con l’uso ed il tempo?” (64)

 

I risultati delle vendite furono incoraggianti e confermarono la risalita delle quotazioni del gruppo australiano: il disco arrivò al no. 4 in UK, e al no. 2 in USA e vendette 11 milioni di copie. Nel frattempo gli AC/DC superarono il muro dei 60 milioni di dischi venduti, ma gravi turbolenze erano in arrivo nel loro tour americano tra la fine del 1990 e l’inizio del 1991.

 

Il preludio fu la morte di un loro fan avvenuta l’11 novembre 1990 in una rissa fuori dalla arena in cui si teneva un loro concerto nel New Jersey. La tragedia si ripetè ben più grave, anche per le modalità, due mesi dopo: il 18 gennaio del 1991 al Salt Palace di Salt Lake City due quattordicenni e una diciannovenne persero la vita schiacciati dalla folla che si era rovesciata sotto il palco alle prime note di Thunderstruck, il loro opening track.  La band continuò a suonare per 45 minuti prima di interrompere il concerto, cosa che fomentò molte polemiche; asserirono di non essersi resi conto dell’accaduto a causa di una mancata comunicazione tra la security dell’arena e quella del gruppo e l’inchiesta della polizia confermò le loro affermazioni, scagionandoli (67), ma il padre di uno dei teenager iniziò comunque una causa milionaria (69).  Una simile tragedia, con ben undici morti, si era verificata ad un concerto degli Who a Cincinnati nel 1979 e negli USA si aprì una discussione riguardo alla vendita dei cd. “floor tickets”, biglietti per posti in piedi ai concerti. (66)

 

Il loro concerto del 18 novembre era stato recensito da Rolling Stone: “Per tutto lo spettacolo gli AC/DC si sono attenuti ai loro fondamentali: monolitici riff di chitarra, voce iperblues, e una ritmica da martello pneumatico che colpisce come un pugno. Tuttavia il gruppo non è apparso limitato dalla semplicità della musica ed ha cercato il massimo impatto con il proprio beat ridotto all’osso e le canzoni seguite in coro dal pubblico. (…) Sebbene Angus sia un musicista talentuoso, con un sicuro senso del blues nascosto dietro i suoi assoli brutalmente insistenti, quello che appare più evidente riguardo al suo lavoro chitarristico non è il contenuto musicale, ma la sua dolorosa intensità. Che faccia il duckwalking sul palcoscenico con un passo insolentemente sincopato o che si rotoli sul pavimento in preda ad una frenesia disarticolata, sembra che Young suoni come se temesse di poter esplodere da un momento all’altro.” (65)

 

Ad agosto del 1991 furono headliner al Monsters of Rock di Donington, performance poi immortalata nel video AC/DC Live At Donington.  Rich Robinson dei Black Crowes era tra il pubblico: “Mentre guardavo i Metallica con 60mila ragazzini in delirio, ricordo che la prima sera ho pensato: ‘Cavolo è assurdo quanta gente segua i Metallica. Chissà come andranno gli AC/DC domani?’ Quando attaccarono con Thunderstruck tutta la folla impazzì completamente e ci siamo detti: ‘Perfetto, questi sono gli AC/DC. Non c’è neanche paragone!” (3)

 

A settembre suonarono in Russia davanti ad un pubblico immenso (le cifre, in assenza di informazioni attendibili, visto che il concerto era gratuito, oscillano tra 500 mila e un milione duecentomila persone) al campo volo di Tushino, vicino Mosca; del resto sono una delle prime band occidentali ad andare a suonare in Russia dopo la caduta del muro.  Brian: “Una folla ad altezza d’uomo è solo una folla, ma quando siamo saliti sul palco e abbiamo visto la profondità della cosa, credo che a quel punto abbiamo cominciato un po’ a tremare.” (3)

 

1992 – Live

 

Una delle stranezze incomprensibili della carriera degli AC/DC è lo scarso spazio dato alla dimensione live su disco rispetto all’importanza che i concerti avevano per l’espressione della loro musicalità.  I loro dischi in studio sono stati talvolta magnifici (Highway To Hell, Back In Black), più spesso buoni, qualcuno mediocre, ma chi ha avuto la fortuna di vederli dal vivo ne ha sempre riportato un’impressione fortissima, come se la potenza e l’energia che tra i solchi degli lp o dei cd arriva, sì, ma di rimbalzo, dal vivo esplodesse con tutto il suo potenziale.  Del resto loro stessi hanno più volte dichiarato che entravano in studio di registrazione quando avevano bisogno di materiale nuovo per i loro live act, così dimostrando quale era la loro scala di priorità.

 

E allora perché nei primi venti anni di carriera hanno pubblicato un solo disco live, per di più singolo, prima di dare alle stampe nel 1992 il doppio intitolato semplicemente Live?  La risposta di Malcolm soddisfa fino ad un certo punto: “Volevamo aspettare fino a quando avessimo avuto abbastanza materiale live insieme a Brian per dargli una buona occasione, in modo tale che non avrebbe dovuto starsene lì a cantare solo le vecchie canzoni di Bon.” (1)  Più onesto Angus, che sottolinea l’urgenza che ha portato a produrre questo bellissimo disco dal vivo: “Volevamo registrarlo prima che ci cadessero i capelli e i denti. Il disco è stato pensato in massima parte per i collezionisti degli AC/DC. Quando parli con loro è sempre la prima cosa che ti chiedono: quando registrerete un altro album dal vivo?” (1)

 

Sia come sia, in questa occasione hanno soddisfatto le attese dei fan.  Live viene pubblicato in diversi formati (cd singolo con 14 brani o doppio con 23, e anche un laser disc con 18 canzoni) e contiene registrazioni effettuate durante i tour mondiali del 1990 e 1991.  Contemporaneamente esce anche la registrazione video del concerto tenuto a Donington, recensita ferocemente da Martin Townsend di Vox (73), il quale getta sarcasmo sulla tenuta da scolaretto di Angus (“che sicuramente ha prodotto terribili effetti psicologici sul trentatreenne Angus”) e sulla qualità canora di Johnson (“il quale più che cantare esegue dei gargarismi infiniti”) per concludere che questo “noioso video è solamente una trita riproposizione di tutti i concerti degli AC/DC”.  Come si vede, più che una critica al video è una radicale stroncatura del gruppo, a conferma dei sentimenti contrastanti che hanno sempre indotto nella stampa.

 

Gli AC/DC adottano due approcci diametralmente opposti per i due live: il video è testimonianza di un unico concerto, ripreso nella sua interezza: “Abbiamo preferito filmare un unico spettacolo piuttosto che assemblare un collage d’immagini perché volevamo cogliere il gruppo nell’intero arco di un concerto. Poter dire, ecco, questi sono gli AC/DC, senza trucchi, senza inganni, prendere o lasciare” (Angus, 75); invece il disco è un patchwork di diversi concerti: “Gli AC/DC sono una band umorale sul palco che cerca la complicità dei ragazzi là sotto: possono essere due ore magiche o due ore di routine, dipende più da loro che da noi paradossalmente. Ecco perché abbiamo vagliato decine di concerti, ore ed ore di materiale prima di giungere alla scaletta definitiva. Cercavamo quel feeling particolare. In tal senso Live rappresenta davvero il miglior concerto del gruppo, un greatest hits live.” (Angus, 75)

 

E il risultato è perfettamente centrato, tanto che Live, nella mia personale graduatoria, raggiunge i due capolavori menzionati all’inizio di questo capitolo sul podio dei migliori lavori degli AC/DC: già l’attacco, con Thunderstruck, è da brivido e anche la prosecuzione con Shoot To Thrill resta su livelli di energia e compattezza impressionanti per un grande inizio. Segue Back In Black, con quel riff di chitarra che è un po’ il loro marchio di fabbrica (la loro Smoke On The Water) e Angus scatenato; il livello fin qui è stato talmente alto che una buona versione di Sin City impallidisce. Eccellente Who Made Who molto tonda, hard rock mainstream e quindi con buona carica melodica; Fire Your Guns è asciutta e tirata a lucido nella sua essenzialità; Jailbreak è una lunghissima cavalcata (sfiora i 15 minuti) dominata dalla chitarra di Angus che nel lungo passaggio centrale improvvisa sul solo tappeto ritmico creato dalla batteria metronomo di Chris Slade. The Jack è un po’ troppo gigioneggiata con il pubblico, ma il pezzo è talmente uno standard che si sente sempre con piacere, e poi Angus si esibisce anche qui in un assolo pregevole; Razor’s Edge è travolgente come ritmo, anche se la canzone non si distende come potrebbe; Dirty Deeds Done Dirt Cheap è resa con la stessa potenza che caratterizza e il riff ben noto fa il resto: niente da dire, disco bellissimo e magnificamente concluso con la carica melodica del coro di Moneytalks, che molto si presta alla esecuzione dal vivo!

 

Secondo cd che si apre alla grande con il lugubre e profondo rintocco delle Hells Bells, che poi sfocia in un potente brano dal riff assassino; molto buona anche Are You Ready, ma splendida High Voltage, dilatata, con una lunga parte centrale introdotta da Bryan che prende eco dal pubblico e poi scandita prima dalla potente e tonda batteria di Slade, cui si aggiunge in funzione ritmica la chitarra di Malcolm per fare da tappeto all’assolo di Angus: grande rock. Evocativa You Shook Me All Night Long, mentre Whole Lotta Rosie torna ad essere prateria per le velocissime scorribande di Angus. Let There Be Rock è un treno ad alta velocità lanciato sul binario del frenetico ma preciso drumming di Slade che però si schianta sul non più felice degli assolo di Angus. Bonny è un accenno di poco più di un minuto di un brano mai pubblicato sui dischi ufficiali del gruppo, ma uscito come b-side del singolo Jailbreak. E’ uno strumentale ripreso da un brano tradizionale scozzese intitolato The Bonnie Banks O’Loch Lomond.  Il finale non è all’altezza del disco, Highway To Hell non riceve giustizia dalla versione presentata, T.N.T. è un compitino ben fatto, For Those About To Rock vive sui leggendari colpi di cannone.

 

Paul Elliot su Vox recensì così il disco: “Quattordici anni dopo (il primo live, If You Want Blood, n.d.r.) gli AC/DC non si sono ammorbiditi. Il minuscolo chitarrista Angus Young scorrazza ancora con i suoi pantaloncini da scolaro e l’attacco di Let There Be Rock è ancora furioso quanto le cose migliori dei maestri dei nostri giorni come i Metallica o i Guns’n’Roses.” (72)

 

Anche Marco Lucchi, che ne scrisse sul mai troppo rimpianto Mucchio Selvaggio, ne subì il fascino: “Si fa davvero sentire la mancanza di quel diavolo in sembianze umane che si chiamava Bon Scott (…); la voce di Johnson – inutile nasconderlo – non è proprio la stessa cosa, a Scott veniva naturale, Brian deve forzarla all’inverosimile. Eppure c’è qualcosa in questo gruppo che prescinde dai gusti e dalle inclinazioni: gli AC/DC hanno più energia di un caterpillar, è impossibile rimanere fermi ascoltando la loro musica; i loro ritmi, per quanto primitivi e rozzi, sono più coinvolgenti di una visione della Madonna, i loro giri di accordi scontati e prevedibili, ma più trascinanti di un contropiede del Liverpool. Il fascino della semplicità: se non è questo il rock, allora vuol dire che non abbiamo mai capito niente.” (74)

 

Sebbene il disco sia bellissimo, non va dimenticato che non si trattava di un disco in studio e non conteneva, quindi, nuovo materiale.  Riempì il vuoto delle nuove produzioni del gruppo, destinato a durare ancora a lungo.  Come esercizio di manutenzione si può definire anche Big Gun, la canzone registrata dagli AC/DC nell’estate del ’93 per il film di Schwarzenegger Last Action Hero, con la produzione di Rick Rubin (antipasto della futura collaborazione su Ballbreaker).  Viene anche registrato un video nel quale partecipa anche lo stesso Schwarzenegger, vestito da Angus…

 

Durante questa lunga vacanza, Angus e Malcolm vanno anche in studio per suonare su di un brano scritto da Dweezil Zappa in onore del padre Frank, recentemente scomparso.  Si tratta di un lungo (e per ora incompiuto) percorso chitarristico, di circa 65 minuti, cui contribuirono diversi dei migliori “manici” dell’epoca: Brian May, Edward Van Halen, Joe Walsh, Ingwie Malmsteen tra gli altri.  In occasione della registrazione Dweezil rivelò che il padre amava molto gli AC/DC, che riteneva fossero fondamentalmente un gruppo di blues, elettrificato e duro, ma sempre blues, e che aveva addirittura cercato di scritturarli per la sua etichetta quando li vide in Australia all’inizio degli anni settanta (99).

 

Da segnalare anche la pubblicazione, nell’autunno del 1993, mentre Live arrivava a due milioni di copie vendute, di un video con la registrazione del concerto di Mosca (For Those About To Rock).

 

1995 – Ballbreaker

 

Il lungo silenzio discografico degli AC/DC terminò nel 1995 con la pubblicazione di Ballbreaker, cinque anni dopo l’uscita del precedente album di inediti.  Lo registrarono con la produzione di Rick Rubin in parte a New York per poi finirlo agli Ocean Studios di LA.  Cercavano il loro sound diretto e senza fronzoli degli inizi. “Volevamo solo ritornare a quel vecchio senso del ritmo. Questa volta ci siamo fatti dominare dalle sensazioni. E le sensazioni migliori sono quelle più semplici.” (Malcolm a Guitar World, citato in (1)).

 

In realtà le cose non andarono molto bene in studio: Rubin avrebbe voluto subito andare a registrare a L.A., ma la band preferì fermarsi ai Power Station Studios di NY, che però si rivelarono inadatti per la ricerca del sound delle origini che la band si proponeva: risultato, cinquanta ore di registrazione buttate e si ricomincia da capo agli Ocean Way Studios di L.A., solo che il tempo perso aveva portato la registrazione del disco a sovrapporsi a quella dei Red Hot Chili Peppers, anch’essi prodotti da Rubin, e un produttore a mezzo servizio non è il massimo.  Alla fine ci vollero cinque mesi a L.A. per terminare il disco e probabilmente molto meno per rovinare il rapporto tra Malcolm e Rubin. “Lavorare con lui è stato un errore” dichiarerà Malcolm a Le Monde nel 2000 (3) e Brian Johnson aggiunge “Rick ci ha fatto registrare ogni brano una cinquantina di volte. Lui era alla ricerca del suono con la migliore dinamica. Ma noi alla fine abbiamo tenuto le registrazioni in cui c’era il feeling più vero. Quel modo di lavorare era piuttosto fastidioso, penso che abbiamo perso molto del nostro fuoco suonando e risuonando gli stessi pezzi così tanto.” (100).

 

La stampa anglosassone rese però merito a Rubin per il sound del disco; così Keith Cameron su Vox: “Sotto la tutela di Rubin, incredibilmente, hanno trovato una vena ritmica selvaggia che non si sentiva dai tempi del punto di riferimento post-Bon, Back In Black. (…) Perché se qualcuno ha il diritto di scopiazzare gli AC/DC, questi sono gli AC/DC stessi.” (78); e anche Paul Brannigan su Classic Rock: “Per essere giusti con Rubin, quando Ballbreaker ha finalmente visto la luce nel 1995 suonava in modo fantastico, caldo ed invitante come il ronzio di un amplificatore a valvole d’epoca. Ma il disco non conteneva alcuna canzone veramente grande.” (102)

 

Questa ultima annotazione di Brannigan è probabilmente quella che meglio definisce il disco: un album di buona fattura, complessivamente piacevole, ma cui mancano le grandi canzoni o, per essere più coerenti con la loro storia, i grandi riff.  Anche se la iniziale Hard As A Rock, ballad hard molto ritmata che suona decisamente bene, uscita come primo singolo, raggiunse in scioltezza il primo posto nelle classifiche USA. Il disco è come se avesse un incedere più lento, anche se evidentemente duro, che lascia affiorare le venature blues del rock’n’roll, sempre presenti nella musica degli AC/DC ma fino ad allora più inconsapevoli: dopo la buona The Furor, sono particolarmente evidenti (del resto dichiarate sin dal titolo), in Boogie Man, ma si sentono anche nel giro più misurato delle chitarre di Burnin’ Alive, dedicata al suicidio di massa della setta di Waco. Hail Caesar, invece, è una satira sui fondamentalisti religiosi.  La title track è relegata in fondo al disco, ma è niente male.

 

Ballbreaker, la cui copertina era stata disegnata dai fumettisti della Marvel, raggiunse il 6° posto in UK, il 4° nelle classifiche Billboard.

 

Rilevanti novità, in questo periodo, nella formazione: ritornò, infatti, con loro il batterista delle origini, Phil Rudd, dopo un lungo periodo di lontananza dalla scena musicale durante il quale aveva gestito una compagnia di elicotteri in Nuova Zelanda; non ci volle molto a Chris Slade per capire che due batteristi erano troppi e togliere il disturbo.  Salutato così da Cliff Williams (100): “I due batteristi che hanno preso il suo posto quando se ne è andato (Chris Slade e, prima di lui, Simon Wright) erano buoni musicisti ma, con loro, cercavamo solo di copiare quello che faceva Phil. C’è solo un Phil Rudd.”

 

Nel tour successivo, prima in USA, poi in Europa, eseguirono dal vivo delle cover di Superstition (Stevie Wonder) e I Feel Good (James Brown).  Comparvero con la loro gigantesca scenografia anche in Italia per quattro date a Bolzano, Bologna, Roma e Milano che suscitarono l’entusiasmo del pubblico nostrano.  A novembre pubblicarono un altro video, tratto da un concerto a Madrid: No Bull – Live At Plaza de Toros de las Ventas, Madrid.

 

1997 – Bonfire

 

Nel 1997, come rompitratta nella sempre più lunga attesa che separava un disco dall’altro, gli AC/DC confezionarono un omaggio a Bon Scott, il cofanetto di 5 cd intitolato Bonfire; “Una volta Bon disse a Malcolm: se un giorno dovessi sfondare davvero e mi proponessero di fare un album solista lo intitolerò Bonfire. Beh, per la verità le sue parole esatte furono: quando sarò un fottuto pezzo grosso. La parte più difficile è stato rintracciare tutto, le cose che potevamo ricordare e i posti dove avevamo fatto concerti con Bon in tutto il mondo e poi procurarsi i nastri perché, per impossibile che possa sembrare, molti erano andati persi oppure erano di pessima qualità. Magari erano una copia di una copia di una copia. La traccia che mi ha impressionato di più era She’s Got Balls al Lifesaver di Sidney. Era la prima sera con Cliff nel gruppo, la prima volta che era sul palco con noi. Pensavo che per questo potesse essere un po’ incerta e invece mi ha veramente scioccato, perché spaccava! E Bon ovviamente fa scintille…” (Angus, 3)

 

Il box contiene il Live From The Atlantic Studios, registrato nel 1977 e precedentemente uscito solo come promo; il doppio Let There Be Rock: The Movie – Live In Paris, registrazione di un concerto del dicembre 1979 a Parigi; un disco di demo, outtake, inediti e alternate versions e una copia integrale di Back In Black. “Abbiamo lasciato passare diciassette anni prima di assemblare la raccolta perché se lo avessimo fatto subito dopo la morte di Bon sarebbe sembrata un’opera di sciacallaggio, ma era qualcosa che volevamo fare da molto tempo. Back In Black era il nostro tributo a Bon, sentivamo che dovesse essere incluso, l’intero album era una dedica a lui” (Angus, 1)

 

Fu, ovviamente, l’occasione per rinfocolare la mai sopita diatriba sulla superiorità di quegli AC/DC rispetto alla successiva versione con Brian Johnson, prevalentemente risolta a favore di Bon,  come rammentò il Mucchio Selvaggio “Anche gli irriducibili ammettono che è con Scott e gli epici, lunghissimi tour in giro per i continenti che gli AC/DC erano arrivati ad un passo dall’ingresso dell’Olimpo della musica mondiale. Back In Black non è fondamentale per respirare l’essenza del gruppo. L’ombra di chi lo ha preceduto era troppo presente e al bravo Johnson venne chiesto essenzialmente di essere all’altezza del suo predecessore, perché ormai la strada da seguire era già stata tracciata.” (91).

 

Nel 1998 Brian scopre i Neurotica, una band di Sarasota, in Florida, dove Brian viveva da qualche tempo, e produce il loro primo album, Seed.

 

Ma anche se mancano dalle scene sempre più a lungo, gli AC/DC non rischiano l’oblio, sono ormai un’istituzione: l’Australia gli dedica un francobollo, la rivista Kerrang li mette nella sua Hall Of Fame, la RIIAA gli consegna il Diamond Award per più di 10 milioni di copie vendute negli USA di Back In Black.

 

2000 – Stiff Upper Lip

 

Finalmente, con il nuovo millennio, vede la luce il nuovo disco di inediti degli AC/DC.  Gestazione lunga, se si pensa che i 18 pezzi che furono registrati erano tutti stati composti tra l’estate 1997 e il febbraio del 1998.  Anche le registrazioni, iniziate nella primavera del 1999, furono tormentate, nel peggiore dei modi: infatti, nel maggio di quell’anno venne tragicamente a mancare il produttore Bruce Fairbairn a soli 49 anni.  Le registrazioni ripresero a luglio a Vancouver, nei Warehouse Studios di Bryan Adams con il ritorno di George Young e Harry Vanda in veste di produttori e con Mike Fraser come coproduttore.

 

Originariamente il disco doveva chiamarsi Smokin’ perché, come diceva Brian “E’ stato un disco da 135.000 sigarette. Quando fumiamo come turchi durante una sessione, allora vuol dire che stiamo facendo un buon lavoro.” (1)  Si chiamò, invece, Stiff Upper Lip, un’espressione gergale inglese che definisce persone impassibili, che non mostrano le emozioni.

 

Sull’album finirono solamente dodici dei diciotto brani registrati e Angus fu chiaro nel prevenire le critiche in merito alla ripetitività della loro musica affermando in una intervista a Rock 2000: “L’unica cosa che cambia, nei dischi degli AC/DC, è la copertina…” (103).  E in fondo non è vero neanche questo, perché confrontando le ultime copertine degli album in studio si rileva anche in esse una certa ripetitività, con Angus, ormai incontrastato front man del gruppo, sempre in evidenza (vedi Blow Up Your Video, Ballbreaker e questo Stiff Upper Lip).

 

Il disco musicalmente comincia bene con la title track, ma man mano che le canzoni si susseguono la voce di Bryan va progressivamente spegnendosi, in certi brani sembra quasi che stia sforzando per esalare un po’ di fiato o nella migliore delle ipotesi, ricorda quella strana voce chioccia e borbottata di Braccio di Ferro...  Non mancano, comunque, i momenti alti, come House Of Jazz con un magnifico giro di chitarra e un andamento da grande classico del rock.  Eccellente anche You Can’t Stand Still, un titolo che descrive bene gli effetti del brano, cui segue Can’t Stop Rock’n’Roll, con un ottimo giro di chitarra e un eccellente equilibrio complessivo e, sì, anche io, come diversi dei critici che recensirono il disco, ho pensato ascoltandolo che gli AC/DC avevano raggiunto una certa maturità; sulla stessa falsariga Damned. Complessivamente un buon album.

 

Generalmente buona l’accoglienza della stampa specializzata.  David Wild su Rolling Stone apprezza la continuità (e se ci pensate è un bel passo in avanti aver trasformato la ripetitività in continuità!): “Stiff Upper Lip è tutto ciò che ci aspettavamo dalla band e assolutamente nulla di più. (…) Il disco ha due fattori dalla sua: è ancora più rumoroso del solito ed è stato prodotto da George Young, il che significa che è un puro prodotto vecchia scuola. (…) Va detto: questi ragazzi sanno ancora come tirare al massimo gli amplificatori.” (81)

 

Entusiasta Fabrizio Massignani su Rockstar: “Rigenerati nell’intesa, nello spessore e nei riff scelti, al giro di boa dei propri cinquant’anni anagrafici gli AC/DC pubblicano il loro miglior lavoro delle ultime due decadi.” (82)  Che poi rincara la dose con un ragionamento passionale, se mi passate l’ossimoro: “All’improvviso, un passo dentro il 2000, arriva Stiff Upper Lip e tutto cambia. Anzi no, nel senso che gli AC/DC continuano a fare rock’n’roll sporco di blues e di boogie come può esserlo un meccanico di grasso. Solo che stavolta lo fanno meglio, ci fanno anche un po’ rimpiangere gli anni di astinenza sprecati dietro lavori mezza calzetta come Who Made Who o tutti quelli degli anni novanta, che tu stai ancora lì che ci pensi a tutte le cose che non sono andate ma loro sono già arrivati, ti colpiscono con un riff, uno qualunque dei tanti che il folletto pazzo Angus Young, a più di quarant’anni ancora in calzoncini da scolaretto, dissemina qua e là lungo le dodici tracce del disco, e in un solo attimo ti torna chiaro il perché ascolti rock’n’roll, perché suoni da sempre a mezz’aria una chitarra immaginaria e perché il rock’n’roll, a parte tutte le cazzate che si possono dire al riguardo, non morirà mai. Davvero.” (83)

 

E per chiudere questa carrellata Paul Brannigan su Classic Rock: “Gli AC/DC hanno ristabilito l’equilibrio tra autenticità e qualità con Stiff Upper Lip. Un prodotto con molte più sfumature e molto meno selvaggiamente eccitabile del suo predecessore, il disco ha pescato tra le più vecchie fonti di ispirazione del gruppo – i riff di Chuck Berry, il boogie dei ZZ Top, la chitarra blues di Muddy Waters – per un risultato finale che si potrebbe quasi descrivere come ‘maturo’. Quasi.” (102)

 

In una inesausta corsa al gigantismo, per la tourneé in USA, Europa, Australia e Giappone dopo i sosia di Angus, agli ormai classici cannoni ed alla mega campana si aggiunse una statua alta 11 metri di Angus, riproduzione di quella raffigurata nella copertina del disco, e la enorme Rosie gonfiabile che andava in pezzi nel pirotecnico finale.  La data di Monaco venne catturata in un dvd (“Stiff Upper Lip Live”) che uscì alla fine del 2001 guadagnandosi recensioni entusiastiche, come quella di Classic Rock che, dopo aver definito Stiff Upper Live “probabilmente il miglior disco degli AC/DC dai tempi di Back In Black” esaltò la qualità del video, sottolineando come la forza della musica del gruppo australiano fosse nella sua semplicità e chiedendosi a mo’ di esempio “come è potuto accadere che nessuno abbia pensato al riff assassino di Hard As A Rock in quarant’anni di esistenza della musica rock?” (87)  Mojo invece lamentò l’assenza di reali extra nel video, fatta eccezione per dieci minuti di intervista (“probabilmente gli AC/DC pensano che DVD sia una sconosciuta marca di birra tedesca” (88)), ma apprezzò la qualità del concerto.

 

Intanto, alla fine del 2000, comparve nei negozi uno dei sintomi più genuini della consacrazione a leggenda del rock: un album tributo intitolato Back In Black (e come sennò?) nel quale loro famosi brani furono omaggiati da cover, tra gli altri, di Lemmy dei Motorhead, di Scott Ian degli Anthrax, Dee Snider e Tracii Guns degli L.A. Guns e degli Ugly Kid Joe i quali, secondo Rock Sound, “stravolgono al punto giusto, ma senza esagerare, i cavalli di battaglia di Angus Young & Co.” (84)

 

Il tour durò più di un anno, ma alla fine gli AC/DC non ne avevano ancora abbastanza, tanto che Brian salì sul palco con gli Scorpions a Tampa e Malcolm e Angus con i Rolling Stones a Sidney per una versione a quattro chitarre di Rock Me Baby. Si esibirono con loro in varie altre occasioni, non ultima un festival rock a Toronto, in Canada, dove suonarono prima gli AC/DC e poi gli Stones davanti a 450.000 persone il 30 luglio 2003. A ottobre ritornarono a suonare al neo-restaurato Hammersmith Apollo di Londra, che li aveva visti sul palco agli esordi della carriera: i quattromila biglietti vennero venduti in quattro minuti (90) e il gruppo regalò uno dei suoi migliori concerti a base dei loro classici.

 

Durante la lunga sosta prima del disco successivo Brian non stette con le mani in mano: prima ebbe una suggestiva reunion con gli ex compagni dei Geordie per cinque concerti (“E’ stato divertente, perché abbiamo eseguito esattamente la stessa scaletta dell’ultima notte prima che lasciassi il gruppo, cose tipo i Nazareth, Don’t Let Me Be Misunderstood degli Animals, anche Whole Lotta Rosie. E’ stato come essere in una fottuta macchina del tempo!” (85)); due pezzi tratti dai concerti finirono su di una mastodontica antologia dedicata alla musica scozzese.  Poi il vocalist si dedicò ad un musical su Elena di Troia con Robert De Warren, infine, nel 2005, collaborò con i Big Machine, band USA.

 

Nel 2003 gli AC/DC entrarono nella Rock’n’Roll Hall Of Fame e cambiarono casa discografica, passando dalla Warner alla Epic del gruppo Sony (all’epoca si parlò di un contratto da 50 milioni di dollari), che come prima cosa ripropose in versione rimasterizzata digitalmente tutta la discografia del gruppo, moltiplicando le vendite milionarie; a novembre, poi, venne pubblicato il dvd del concerto a Donington del 1991 (Live At Donington). A quel punto in America avevano venduto 63 milioni di dischi (nono artista di tutti i tempi e quinta band dietro a Beatles, Led Zeppelin, Pink Floyd e Eagles).

 

Nella sempre più lunga attesa di un lavoro originale, nel 2005 venne anche pubblicato un doppio DVD intitolato Family Jewels che riprendeva quaranta esibizioni degli AC/DC dal 1975 al 1993, le prime venti con Bon le seconde venti con Brian: vendite stellari.  Nel 2007 pubblicarono Plug Me In un DVD in due versioni, doppia e tripla, con reperti filmati storici e parteciparono alla colonna sonora del videogame Rock Band.

Del resto, come fece notare Ken Mc Intyre (103), anche se Stiff Upper Lip non era stato un successo travolgente (disco di platino, ma non aveva raggiunto la cima delle classifiche in UK, USA e neanche in Australia), gli AC/DC avevano ormai raggiunto uno status che gli consentiva di non essere preda dell’ansia di essere dimenticati: “potevano alzarsi dal divano in qualsiasi momento, dopo cinque anni, o sette o quindici e comunque avrebbero riempito gli stadi, avrebbero sfornato un disco degno del rock’n’roll più arrabbiato e avrebbero ancora ispirato giovinastri a comprare una Gibson SG e formare un loro gruppo.”

 

2008 – Black Ice

 

Quando uscì Black Ice i fan degli AC/DC avevano quasi perso le speranze: erano trascorsi : otto anni dall’ultimo disco e, cosa ancora più incredibile, cinque senza un concerto (l’ultimo un benefit a Toronto nel 2003).

 

Black Ice, primo album per la Sony dopo il divorzio dalla storica etichetta Atlantic, venne registrato a Vancouver nel marzo 2008, in sei settimane, sotto la produzione di Brendan O’Brien (non l’ultimo venuto, come produttore aveva lavorato con Pearl Jam, Soundgarden, Bruce Springsteen, Rage Against The Machine).

 

Angus ne fu soddisfatto: “E’ stato bello lavorare con Brendan. Ha un background da musicista e sa esattamente ciò di cui hai bisogno. Sa di cosa stai parlando. E’ davvero una persona molto brillante.” (1)

 

In sostanza, come ammise Angus, O’Brien si concentrò nel tirare fuori la melodia senza intaccare il ritmo delle canzoni degli AC/DC. “La musica degli AC/DC che ricordo di più è quella di Highway To Hell e Back In Black, che considero delle canzoni pop eseguite in modo feroce e molto heavy. Angus e Malcolm hanno scritto canzoni che si fanno ricordare e tutto quello che ho dovuto fare è stato assemblarle in un disco che facesse dire alla gente: ‘Mi sono mancati gli AC/DC e sono felice che siano tornati’.”  (Brendan O’Brien, 104)

 

Ma chi si giovò di più del lavoro di O’Brien fu Brian Johnson, che in quel periodo attraversava una fase di depressione ed insicurezza, tanto che raccontò di aver affrontato O’Brien dicendogli: “Se non sono all’altezza di fare il disco, per favore dimmelo. Sono una persona adulta, non mi metterò a piangere, mi limiterò a sparire, dirò addio ai ragazzi e loro potranno cercare qualcuno che faccia il suo lavoro meglio di me. Non sono un grande cantante, ma sono un cantante pieno di passione. Devo avere un microfono tra le mani e devo potermi muovere, cosa che non è possibile con i microfoni della sala di registrazione. Credo che si sentisse nell’ultimo paio di dischi, stava diventando una cosa quasi meccanica. E non ne vado fiero.” (104)

 

La cura O’Brien funzionò, tanto che Brian potè affermare: “Quando ho sentito la registrazione mi è venuta la pelle d’oca perché mi è sembrato di sentire me stesso venticinque anni prima. E lo devo interamente a Brendan O’Brien.” (104)  Effettivamente la voce di Brian, che era diventata quasi parodistica in alcuni brani dei dischi precedenti, in Black Ice cresce nei toni e nella tenuta.

 

Il disco ha un inizio di grande impatto con Rock’n’Roll Train, un brano degno di figurare tra i migliori del loro folto repertorio. Big Jack è un buon pezzo, non so quanto reminiscente della loro classica The Jack. Anything Goes è insolita, con un gioco di contrappunto della chitarra più pop che rock’n’roll, ma molto piacevole. War Machine ha un bell’attacco, prima basso e batteria, molto cupi, poi la chitarra di Malcolm, quindi quella di Angus, ma poi sfocia in una canzone più banale, riscattata da un bel finale. Spoilin’ For A Fight vede il solito Malcolm mettersi al servizio della canzone con un efficacissimo contrappunto alla voce di Brian: per un leader, quale egli era, l’ennesima professione di umiltà. Molto bella Decibel, con un bel riff di chitarra ed uno splendido intarsio di Angus; buona Money Made, con qualche inclinazione più melodica; Rock’n’roll Dream è un mid-tempo piuttosto variegato, con cambi di ritmo non proprio usuali per loro; la title track, eccentricamente relegata sul fondo del disco, è un bel brano, come sempre (come mai più...) costruito intorno al riff di Malcolm.

 

La buona qualità del disco pagò, in questo caso: Black Ice è stato uno dei dischi di maggior successo del gruppo, il singolo apripista (Rock’n’roll Train) venne nominato per i Grammy Award e l’album andò direttamente al primo posto in 29 paesi, USA inclusi vendendo otto milioni di copie.

 

Da sottolineare la scelta di marketing, forse non al passo con i tempi, ma coerente con la natura di band legata al sound tradizionale, di non autorizzare il download dei loro brani in negozi online, per affidare la vendita del disco negli USA in esclusiva alle catene Walmart e Uncle Sam’s.  “Vogliamo che la gente compri il disco, una cosa che si può toccare, non un numero in un fottuto download, che è ciò che la musica sta diventando.” (Brian, 104).   Per la cronaca, gli AC/DC resistettero fino al 2012, quando autorizzarono la pubblicazione del loro catalogo su I-Tunes.

 

Grande successo, vista l’attesa che si era creata con la loro prolungata assenza dalle scene, riscosse anche il Black Ice Tour, che durò un anno e mezzo, dall’ottobre 2008 alla primavera del 2010, 160 serate in quattro continenti, 4,9 milioni di spettatori, 441,6 milioni di dollari di incassi: cifre che fanno capire come gli AC/DC fossero ormai un’industria.

 

Prima del nuovo inabissamento, che questa volta sarebbe durato quattro anni (sei se si conteggiano dall’uscita di Black Ice), gli AC/DC confezionarono la colonna sonora di Iron Man 2 remixando 15 loro canzoni storiche, ma alla prima i fratelli Young se ne andarono clamorosamente per protestare contro il – a loro dire – non sufficiente utilizzo dei pezzi nel corso del film.  Nel giugno del 2010 parteciparono al Download Festival con un palco speciale per loro, aprendo la prima serata: erano oltre dieci anni che non si concedevano a festival.

 

2014 – Rock Or Bust

 

  Alla pubblicazione del disco, un colpo al cuore per tutti i fan del gruppo.  Voci che correvano da tempo, mai ufficialmente commentate, trovarono una amara conferma nella dedica a Malcolm Young, fuori dal gruppo perché ormai preda di una demenza precoce in stadio avanzato.  Si venne a sapere che i primi segnali erano stati colti già in sede di preparazione di Black Ice, la cui lunga gestazione era stata attribuita all’infortunio alla mano di Cliff Williams ed alle trattative per il passaggio dalla Elektra alla Columbia, ma che aveva risentito anche e forse soprattutto delle declinanti condizioni mentali di quello che, a tutti gli effetti, era stato il leader della band per oltre 40 anni.

 

L’album secondo Paul Rees risentiva pesantemente dell’assenza di Malcolm, che viene rimpiazzato dal volenteroso nipote Steve Young, bravo, ma un’altra cosa: “Angus si è rifatto al magazzino di riff che lui e Malcolm avevano accumulato negli anni. E’ riuscito a tirar fuori una pregevole apertura con un uno-due fulminante, la title track e Play Ball. Hard Times era uno shuffle divertente e contagioso e Rock The House di fatto riproponeva la Black Dog degli Zeppelin. Ma il resto delle undici tracce dava la sensazione di metallo riscaldato.” (105)

 

In effetti l’apertura è in pieno stile AC/DC, di quello buono, con la chitarra cadenzata che ricorda molto quella di Malcolm e tanta energia compressa. Play Ball è giocata su ritmi più sferraglianti e tirati, un buon brano; Rock The Blues Away è un pelo sotto la sufficienza, che invece viene clamorosamente mancata dalla brutta e confusa Miss Adventure, patchwork di idee vecchie e male assortite; meglio Dogs Of War, feroce pezzo heavy, con i classici cori degli AC/DC e lo svolazzo di Angus a mettere la firma; Got Some Rock And Roll Thunder è più convenzionale; e forse è convenzionale anche Hard Times, ma è veramente un bel brano di hard rock blueseggiante, con la chitarra di Angus molto incisiva; ed è vero che la intro di Rock The House è molto zeppeliniana, tanto che dopo il riff iniziale hanno un momento di incertezza, come se si chiedessero se continuare con Black Dog…; secca e decisa Emission Control, buon finale per un album fatto di brani brevi e non sempre convincenti.

 

Senza Malcolm, dopo la pubblicazione del disco, gli AC/DC cominciarono a sfaldarsi.  Cominciò Phil Rudd, che pensò bene di mettersi nei guai, facendosi arrestare per possesso di droga e tentato omicidio (!), accusa che venne poi derubricata in minacce, ma che portò Rudd a scontare otto mesi agli arresti domiciliari in Nuova Zelanda, con conseguente uscita dal gruppo.

 

Come se non bastasse, anche Brian Johnson venne fermato, in questo caso dal suo medico che gli proibì ulteriori concerti per (provare a) salvare il suo udito: questa ennesima tegola provocò la cancellazione di dieci concerti negli stadi già programmati. Inaspettatamente, questo fatto innescò una faida: gli AC/DC annunciarono la cancellazione con un gelido post pubblicato sul loro website ufficiale senza alcuna dichiarazione di Johnson e facendo riferimento alla probabilità che i concerti fossero riprogrammati più avanti con un “cantante ospite”; nel frattempo, neanche una telefonata venne fatta al povero Johnson, neanche per informarsi sulle sue condizioni, tanto che lui ammise tristemente di sentirsi fatto fuori senza una parola dopo 36 anni con il gruppo (106).

 

Fu Brian, cavallerescamente, ad offrire una versione dei fatti riconoscente verso i suoi compagni di strada: “Mi ero da qualche tempo reso conto che la menomazione all’udito interferiva con le mie performance sul palcoscenico. Facevo fatica a sentire le chitarre e non riuscendo a sentire con chiarezza gli altri musicisti temevo che la qualità delle mie performance potesse essere compromessa. In tutta onestà, questo non lo potevo permettere. I nostri fan meritano che le mie esecuzioni siano al massimo livello e se per qualsiasi ragione non sono in grado di darglielo non intendo scontentare il pubblico o creare imbarazzo al gruppo. Non sono uno che scappa e mi piace finire le cose che inizio, tuttavia i medici sono stati chiari nel dire a me ed agli altri componenti del gruppo che non avevo altra scelta che fermarmi per questi concerti e forse anche oltre. Essere parte degli AC/DC, incidere dischi e suonare dal vivo per milioni di fan devoti negli ultimi 36 anni è stato il lavoro della mia vita. Non riesco ad immaginare di andare avanti senza essere ancora parte di tutto questo, ma per il momento non ho alternative. L’unica cosa certa è che sarò sempre con gli AC/DC ad ogni concerto in spirito, se non di persona.” (107)

 

Per la sostituzione di Johnson si cominciò a parlare di un clamoroso scoop: l’assunzione di Axl Rose, dei Guns’n’Roses!

 

Secondo le migliori regole dei cineforum, come da indimenticabile gag di Nanni Moretti, seguì dibattito, magistralmente riassunto dalla rivista Classic Rock che pubblicò due articoli contrapposti, il primo dei quali si intitolava: “Perché Axl Rose che si unisce agli AC/DC e la peggiore idea di sempre”, ed in cui si poteva leggere: “Immaginatevi che a metà concerto, diciamo durante Shake A Leg, Axl esclami ‘dammi del reggae!’ Cosa succede a quel punto? Angus darebbe a Axl Rose del reggae? Perché se lo facesse io la farei finita con il rock’n’roll per sempre. (…) La band è più di Angus. La band è Malcolm e Angus e Phil e Cliff e Brian (o magari, diciamocelo, Bon). E questa band merita di morire con dignità, non di essere trascinata per il mondo come niente più che un monumento alla vanità di Axl Rose. (…) Non c’è mai stata una volta al mondo in cui Axl Rose sia stato la soluzione per una crisi, che fosse rock’n’roll o qualsiasi altra cosa.” (108)

 

Gli argomenti contrari di Joe Daly nel suo “Perché Axl Rose che si unisce agli AC/DC è un’idea brillante” (109) erano molto pragmatici: nulla ha fermato gli AC/DC nella loro lunga storia, non la morte di Bon, non le continue defezioni, non le disgrazie accadute durante i loro tour; se la leggenda deve sopravvivere a tutto, come potrebbero gli australiani accontentarsi del cantante dei Judas Priest o di quello dei Krokus? E come potrebbe Axl Rose gettare alle ortiche un’occasione che capita una volta nella vita come quella di iscrivere il proprio nome nella storia degli AC/DC, band per la quale, peraltro, ha nutrito da sempre grande e dichiarata ammirazione, tanto da eseguire spesso dal vivo la loro Whole Lotta Rosie e (altro vantaggio sulla concorrenza!) da conoscere a menadito il loro repertorio? E infine, i fan in possesso del biglietto per uno di quegli ultimi dieci concerti sarebbero stati più elettrizzati da una versione degli AC/DC che ormai comprende due soli elementi originari (Angus e Cliff Williams) con il cantante dei Krokus come frontman, o dalla presenza di Axl Rose?

 

Nella vita reale, in genere, prevalgono i pragmatici e così fu anche in questa occasione.  Axl Rose effettivamente impugnò il microfono negli ultimi spettacoli degli AC/DC e le cronache del concerto di Lisbona annotarono che quando, in un tripudio di fuochi d’artificio, gli AC/DC salirono sul palco, Axl, armato di bandana e cappello da cow boy, con un tutore alla gamba, ma adornato dai fulmini marchio di fabbrica del gruppo, “appare ridicolo e non si capisce come possa funzionare. Ma funziona, sul serio. Axl dal punto di vista tecnico ha parametri di performance superiori a quelli di Brian e quando si concentra per cogliere la nota giusta non c’è margine di improvvisazione. (…) E’ una performance feroce e quasi senza difetti e lui dà anche la sensazione di divertirsi un mondo.” (110) Per concludere con un crudele, ma forse non infondato, pensiero per Brian Johnson: “…a 68 anni essere Brian Johnson per due ore ogni sera sarebbe un’impresa dura per chiunque. Rock’n’roll? E’ roba per gente più giovane.” (110)  Per la cronaca, anche Phil Rudd era stato sostituito da Chris Slade per il tour.

 

Il buon Johnson si consolò presentando una trasmissione televisiva di musica rock su Discovery Channel nella quale intervistava, con il suo caratteristico stile easy, molte star del rock.

 

Alla fine del 2017 un doppio colpo al cuore per gli AC/DC: il 22 ottobre muore George Young, il 17 novembre lo segue Malcolm, per complicazioni conseguenti alla sua malattia.  Sommate ai problemi di Brian Johnson e Phil Rudd, aggiungete l’annuncio di Cliff Williams di volersi ritirare dalle scene, comunicato a settembre del 2017, e vi sembrerà di veder apparire un enorme “The End”... Allora non si sapeva se gli AC/DC avrebbero chiuso così la loro carriera, ma nessuno poteva avere un dubbio riguardo al fatto che, in ogni caso, non sarebbe più stata la stessa cosa.

 

2020 – Pwr Up

 

Poi successe come nelle favole...  Angus non riusciva proprio a pensare che la avventura di una vita fosse terminata, per quanto forte potesse essere il colpo subito: richiamò Brian, guarito, facendo giustizia delle insistenti voci che volevano Axl ormai in pianta stabile al microfono degli AC/DC; Phil, risolti i suoi problemi con la giustizia, riprese il posto dietro i rullanti; Cliff ci ripensò (e come poteva fare altrimenti?) e impugnò di nuovo il basso, tutti allineati e coperti alle spalle di Angus per provare a gridare che la leggenda non era finita e che i titoli di coda erano prematuri.  Mancava Malcolm, e non era un’assenza di poco conto, ma alla chitarra ritmica si stabilizzò il nipote Steve.

 

E a dicembre del 2020, preceduto da un’accorta campagna promozionale con la scritta PWR UP che compare, misteriosa, in alcuni luoghi canonici (tra la Ashfield Boys High School), vide la luce Pwr Up, diciassettesimo disco del gruppo, dedicato, naturalmente, a Malcolm e prodotto da Brendan O’Brien, che già aveva lavorato sugli ultimi due album del gruppo.  Il disco era stato registrato, in un alone di mistero, nell’estate del 2018 in sole sei settimane.

 

Nella recensione pubblicata sulla edizione italiana di Classic Rock Luca Fassina testimonia che anche se tutto è cambiato, niente è cambiato: “Dodici i pezzi tipicamente AC/DC che si rifanno fedelmente alla formula che li ha resi famosi in tutto il mondo: grandi chitarre, voce graffiante e quei cori da stadio che sono nel DNA della band australiana dalla sua nascita nel 1973.” (115)

 

Quando ascoltai il cd per la prima volta ricordo di averlo infilato nel lettore con un po’ di trepidazione, ma la mia incertezza si dissolse sulle prime note di Realize: un riff non nuovissimo ma micidiale, Brian in buona forma, gli assolo di Angus e anche il giro pesante di ritmica... Gli AC/DC erano sempre loro...  Come per quasi tutti gli altri brani del disco, le idee di base per Realize derivavano dalle sessioni di Black Ice o Rock Or Bust, e magari portavano la matrice di Malcolm: “Ricordo quando Malcolm mi fece sentire la prima volta l’idea di Realize. E io gli dissi ‘E per il testo hai dei suggerimenti?’ e lui mi cantò cosa aveva in mente. Avrei voluto avere un registratore. Ma, comunque, era così perfetta che mi rimase in testa e così è stato facile rimettere assieme i pezzi.” (114)

 

Rejection è meno buona, ma sono ottime la anthemica Shot In The Dark e la melodica Through The Mists Of Time, che è anche la preferita di Brian (“mi fa venire la pelle d’oca ogni volta” (114)) e di Angus, che aveva scritto tutti i testi dell’album: è palese, anche se solo implicito, che attraverso la riflessione sullo scorrere del tempo contenuta nel brano Angus volesse rievocare il fratello.  “Siamo sempre stati uniti. Fu un’idea di Malcolm mettere assieme gli AC/DC, e io rimasi sbalordito che lui mi avesse chiesto di farne parte.  Eravamo inseparabili, sai?  Di lì in poi siamo rimasti assieme ed abbiamo lavorato su questa unione, e cercato sempre di fare del nostro meglio perché sembrasse un’unica immensa chitarra.” (114)

 

Ed in effetti man mano che si susseguivano i brani non si poteva non riconoscere che, a prescindere dalla loro altalenante qualità, le ricette che hanno reso celebre il lampo degli AC/DC si ritrovavano puntualmente in questo diciassettesimo album in studio del gruppo australiano.  Che sorpresa poteva costituire il boogie di Witch’s Spell?  Nessuna, ma il piacere di ritrovare il solido sound del gruppo e poter credere che il tempo si fosse fermato era impagabile...  Da registrare ancora una intro di Demon Fire che ricordava un vecchio brano di Alice Cooper degli anni settanta e altri buoni pezzi come Wild Reputation, Systems Down e Money Shot per completare l’ennesimo album fatto di canzoni buone, ma senza quella indimenticabile.  Lo so che se rileggeste i commenti relativi agli album precedenti ritrovereste di frequente questa ultima annotazione: ma, vi assicuro, non sono io quello che si ripete...

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Roberto Cappelli 

Bibliografia:

LIBRI

 

1.  Let There Be Rock di Susan Masino, ed. Tsunami;

 

2. L’Inferno Non E’ Così Male di Mick Wall, ed. BD;

 

3. AC/DC di Murray Engleheart e Arnaud Durieux, ed. Arcana;

 

ARTICOLI

 

4. Recensione di Powerage di Manuel Insolera su Ciao 2001 no. 5 del 4 febbraio 1979;

 

5. Recensione di Powerage di Vincent Messina su Popster no. 23 dell’aprile 1979;

 

6. Recensione di Highway To Hell di Aldo Bagli su Ciao 2001 no. 43 del 28 ottobre 1979;

 

7. E il rock scese all’inferno di Aldo Bagli su Ciao 2011 no. 1-2 del 13 gennaio 1980;

 

8. Recensione di If You Want Blood di Silvio Parano su Popster no. 24 del maggio 1979;

 

9. AC/DC, redazionale su Popster no. 32 del febbraio 1980;

 

10. Recensione di If You Want Blood… di Federico Ballanti su Ciao 2001 no. 13 del 30 marzo 1980;

 

11. Recensione di Back In Black di Manuel Insolera su Ciao 2001 no. 42 del 19 ottobre 1980;

 

12. Per chi suonano le campane dell’inferno? di Aldo Bagli su Ciao 2001 no. 44 del 2 novembre 1980;

 

13. Super Quattro di Sergio D’Alessio su Popster no. 37 del luglio 1980;

 

14. Londra a ferro e fuoco di Nicola Bandini su Ciao 2001 no. 51 del 21 dicembre 1980;

 

15. Recensione retrospettiva di Back In Black di Barry Walters su Rolling Stone no. 906 del 3 ottobre 2002;

 

16. Fatti di Davide Gentili su Rockstar no. 5 del febbraio 1981;

 

17. Discografia su Ciao 2001 no. 5 del febbraio 1981;

 

18. Speciale Heavy Metal su Rockstar no. 6 del marzo 1981;

 

19. Poster di Giampiero Vigorito su Rockstar no. 12 del settembre 1981;

 

20. Ac/Dc editoriale su Music no. 34 del gennaio 1982;

 

21. Autostrada per l’inferno di Federico Ballanti su Ciao 2001 no. 4 del 24 gennaio 1982;

 

22. Recensione di For Those About To Rock di Sebastiano Zampa su Mucchio Selvaggio no. 48 del gennaio 1982;

 

23. Il film di Antonio Orlando su Ciao 2001 no. 17 del 25 aprile 1982;

 

24. Heavy metal ieri e oggi di Federico Ballanti su Ciao 2001 no. 31 del 1 agosto 1982;

 

25. Rock around the world su Ciao 2001 no. 35 del 29 agosto 1982;

 

26. Per chi suona la campana? di Luigi Abbà su Ciao 2001 no. 50 del 12 dicembre 1982;

 

27. AC/DC di Pierfrancesco Atzori su Rockstar no. 25 dell’Ottobre 1982;

 

28. HM in Australia di Pierfrancesco Atzori su Rockstar no. 27 del Dicembre 1982;

 

29. AC/DC di Cristiano Gentili su Tuttifrutti no. 4 del Febbraio 1983;

 

30. Un disco atteso di C. Gentili e G. Chirico su Tuttifrutti no. 12 dell’Ottobre 1983;

 

31. Recensione di Flick Of The Switch di Cristiano Gentili su Tuttifrutti no. 12 dell’Ottobre 1983;

32. Recensione di Flick Of The Switch di Pierfrancesco Atzori su Rockstar no. 37 dell’Ottobre 1983;

 

33. Recensione di Flick Of The Switch di Sebastiano Zampa su Mucchio Selvaggio no. 63 dell’Ottobre 1983;

 

34. Con loro il rock è dannato di Gianluca Bassi su Ciao 2001 no. 40 del 9 Ottobre 1983;

 

35. Recensione di Flick Of The Switch di Federico Ballanti su Ciao 2001 no. 44 del 6 Novembre 1983;

 

36.  Rock’n’rolling di Roberto Gandolfi su Ciao 2001 no. 10 del 11 Marzo 1984;

 

37. The paradoxical powerchords advantages of rock’n’roll conservatorism di Charles M. Young su Musician no. 66 dell’Aprile 1984;

 

38. Intervista esclusiva di Piergiorgio Brunelli su Ciao 2001 no. 36 del 9 settembre 1984;

 

39. Nettuno rock di Giorgio Onetti su Ciao 2001 no. 38 del 23 settembre 1984;

 

40. In rock, intervista di Pierfrancesco Atzori su Rockstar no. 53 del febbraio 1985;

 

41. Recensione di Fly On The Wall di Aldo Bagli su Ciao 2001 no. 32 del 9 agosto 1985;

 

42. Recensione di Fly On The Wall di Pierfrancesco Atzori su Rockstar no. 60 del settembre 1985;

 

43. Superstar, intervista di Piergiorgio Brunelli su Ciao 2001 no. 37 del 13 settembre 1985;

 

44. Recensione di Fly On The Wall di Rupert su Fare Musica no. 55 dell’ottobre 1985;

 

45. Non siamo heavy metal intervista di Roberto Gandolfi su Ciao 2001 no. 46 del 15 novembre 1985;

 

46. L’archivio rock su Ciao 2001 no. 7 del 21 febbraio 1986;

 

47. I martelli degli dei su Ciao 2001 no. 9 del 7 marzo 1986;

 

48. Recensione di Who Made Who di Federico Ballanti su Ciao 2001 no. 26 del 4 luglio 1986;

 

49. Parla Angus Young, intervista di Marco Lucchi su Mucchio Selvaggio no. 81 dell’ottobre 1984;

 

50. Recensione di Who Made Who di Maurizio Becker su Mucchio Selvaggio no. 102 del luglio 1986;

 

51. L’importante è essere contro di Aldo Bagli su Music no. 72 del 1985;

 

52. Elettroshock di Piergiorgio Brunelli su Ciao 2001 no. 5 del 3 febbraio 1988;

 

53. Recensione di Blow Up Your Video di Giancarlo Trombetti su Tuttifrutti no. 66 del marzo 1988;

 

54. Recensione di Blow Up Your Video di Marco Lucchi su Ciao 2001 no. 15 del 13 aprile 1988;

 

55. Recensione di Blow Up Your Video di Cristiano Gentili su Fare Musica no. 85 dell’aprile 1988;

 

56. Recensione di Blow Up Your Video di Marco De Leonardi su Mucchio Selvaggio no. 124 del maggio 1988;

 

57. Live AC/DC & Dokken di Katia Natola su Tuttifrutti no. 68 del maggio 1988;

 

58. Bad boy boogie di Peter Anderson su Tuttifrutti no. 69 del giugno 1988;

 

59. 100 Best albums of the eighties su Rolling Stone no. 565 del 16 Novembre 1989;

 

60. Blade runners, intervista di Roberto Gandolfi su Ciao 2001 no. 40 del 16 Ottobre 1990;

 

61. Recensione di Razor’s Edge di Mario Giugni su Ciao 2001 no. 46 del 20 Novembre 1990;

 

62. Recensione di Razor’s Edge di John Mendelssohn su Rolling Stone US no. 591 del 15 Novembre 1990;

 

63. Recensione di Razor’s Edge di Maurizio Becker su Music no. 132 del Dicembre 1990;

 

64. Recensione di Razor’s Edge di Marcello Villella su New Rock Magazine no. 12 del Dicembre 1990;

 

65. Recensione concerto al Capital Center di Landover, Michigan di J.D. Considine su Rolling Stone (US) no. 595 del 10 gennaio 1991;

 

66. Three fans die at AC/DC show di Alan Light su Rolling Stone (US) no. 599 del 7 marzo 1991;

 

67. Probe clears AC/DC in fans’ deaths di Alan Light su Rolling Stone (US) no. 600 del 21 marzo 1991;

 

68. AC/DC & me di Charles M. Young su Musician no. 150 dell’aprile 1991;

 

69. AC/DC face lawsuit redazionale su Vox no. 7 dell’aprile 1991;

 

70. Blade runners di Roberto Gandolfi su Music no. 139 del luglio 1991;

 

71. Recensione di Who Made Who (DVD) di Stefano Mannucci su Rockstar no. 134 del novembre 1991;

 

72. Recensione di Live di Paul Elliott su Vox no. 27 del dicembre 1992;

 

73. Recensione di Live At Donnington (Video) di Martin Townsend su Vox no. 27 del dicembre 1992;

 

74. Recensione di Live di Marco Lucchi su Mucchio Selvaggio no. 179 del dicembre 1992;

 

75. Watt we like intervista di Paolo Battigelli su Ciao 2001 no. 49 del 15 dicembre 1992;

 

76. Quei cattivi ragazzi di Mark Rossi su Raro no. 35 dell’ottobre 1993;

 

77. Love hertz di Neil Perry su Vox no. 49 dell’ottobre 1994;

 

78. Black in the saddle, recensione di Ballbreaker di Keith Cameron su Vox no. 61 del novembre 1995;

 

79. Visti nel mondo, recensione del concerto di Bologna di Roberto Villani su Mucchio Selvaggio no. 222 del luglio 1996;

 

80. Recensione del concerto di Milano di Attilio Grilloni su Rockstar del luglio 1996;

 

81. Recensione di Stiff Upper Lip di David Wild su Rolling Stone no. 837 del 30 marzo 2000;

 

82. Recensione di Stiff Upper Lip di Fabrizio Massignani su Rockstar dell’aprile 2000;

 

83. Goldies di Fabrizio Massignani su Rockstar dell’aprile 2000;

 

84. Recensione di Back In Black – A Tribute To AC/DC di Matteo Cipolla su Rock Sound no. 33 del gennaio 2001;

 

85. Let there be… teeth?! su Classic Rock no. 35 del dicembre 2001;

 

86. The 100 greatest rock albums ever su Classic Rock no. 35 del dicembre 2001;

 

87. Recensione di Stiff Upper Lip Live di Paul Ging su Classic Rock no. 35 del dicembre 2001;

 

88. Recensione di Stiff Upper Lip Live di Keith Cameron su Mojo no. 98 del gennaio 2002;

 

89. Where are they now? Mark Evans su Classic Rock no. 50 del febbraio 2003;

 

90. Sul palco di Leonardo Clausi su Mucchio Selvaggio no. 556 del 25 novembre 2003;

 

91. AC/DC di Erika Furci su Mucchio Selvaggio no. 559 del 16 dicembre 2003;

 

92. Recensione dei dvd Live At Donington, No Bull e Stiff Upper Lip Live di Emilio Cozzi su Rolling Stone It. no. 4 del febbraio 2004;

 

93. Duri a morire di Dado Minervini su Rockstar no. 294 del febbraio 2005;

 

94. The Complete AC/DC Story su Classic Rock Platinum Series.

 

95. Rock’n’roll damnation di Ken Mc Intyre su The Complete AC/DC Story, Classic Rock Platinum Series;

 

96. In the badlands di Ben Mitchell su The Complete AC/DC Story, Classic Rock Platinum Series;

 

97. Going into over drive di Ken Mc Intyre su The Complete AC/DC Story, Classic Rock Platinum Series;

 

98. High voltage di Paul Elliott su The Complete AC/DC Story, Classic Rock Platinum Series;

 

99. Frank loved R&B. AC/DC is a R&B band su The Complete AC/DC Story, Classic Rock Platinum Series;

 

100. Hard as a rock di Malcolm Dome su The Complete AC/DC Story, Classic Rock Platinum Series;

 

101. “Robert Plant? Bit of a poser” intervista a Malcolm Young di Mark Blake su The Complete AC/DC Story, Classic Rock Platinum Series;

 

102. Rock your heart out di Paul Brannigan su The Complete AC/DC Story, Classic Rock Platinum Series;

 

103. Can’t stop rock’n’roll di Ken Mc Intyre su The Complete AC/DC Story, Classic Rock Platinum Series;

 

104. Rock’n’roll train di Henry Yates su The Complete AC/DC Story, Classic Rock Platinum Series;

 

105. Train kept a-rollin’ di Paul Rees su The Complete AC/DC Story, Classic Rock Platinum Series;

 

106. Is this the end? di Paul Branigan su The Complete AC/DC Story, Classic Rock Platinum Series;

 

107. It’s a long way to the top di Paul Branigan su The Complete AC/DC Story, Classic Rock Platinum Series;

 

108. Why Axl Rose joining AC/DC is the worst idea ever di Sleazegrinder su The Complete AC/DC Story, Classic Rock Platinum Series;

 

109. Why Axl Rose joining AC/DC is a brilliant idea di Joe Daly su The Complete AC/DC Story, Classic Rock Platinum Series;

 

110. Recensione concerto di Lisbona, Passeio Maritimo de Alges su The Complete AC/DC Story, Classic Rock Platinum Series;

 

111. The 30 greatest AC/DC songs ever as chosen by the stars su The Complete AC/DC Story, Classic Rock Platinum Series;

 

112. AC/DC voce di Wikipedia consultato il 26 gennaio 2020;

 

113. Bonjour Mr. Kinnear redazionale su Classic Rock no. 78 dell’Aprile 2005;

 

114. Il ritorno di Paul Elliott e Luca Fassina su Classic Rock no. 97 del Dicembre 2020;

 

115. Recensione di PWR UP di Luca Fassina su Classic Rock no. 97 del Dicembre 2020;

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