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A GUY CALLED GERALD: biografia e discografia

Gerald Rydel Simpson nasce il 16 febbraio 1967 a Moss Side, nei dintorni di Manchester, da genitori di origine giamaicana.  Sembra che il padre avesse una significativa collezione di dischi Trojan, e quindi la formazione musicale del giovane Gerald viene plasmata tanto dalla musica reggae, che domina l’ambiente familiare, quanto dalla vivacissima scena dance dei club di Manchester, che tra la fine degli anni ottanta e l’inizio dei novanta era la mecca della musica dance. Gerald comincia a studiare danza contemporanea, poi lascia e si dedica alla produzione di musica elettronica.

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Il primo gruppo costituito da Gerald è uno strano ensemble chiamato Scratchbeat Masters con il quale si cimenta, spesso anche in confronti competitivi con altri giovani dj o musicisti della scena mancuniana, nell’esplorazione di sonorità ottenute manipolando musiche altrui.  In questo contesto conosce Graham Massey e Martin Price con i quali, nel 1988, forma gli 808 State, gruppo seminale nella storia della musica elettronica britannica, versante dance, partecipando al primo disco del gruppo, Newbuild.  

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Dimostrando un’irrequietezza che riaffiorerà in tutta la sua vita musicale, Gerald lascia però presto il gruppo per coltivare la propria carriera solistica, adottando il didascalico pseudonimo A Guy Called Gerald e pubblicando (e siamo ancora nel 1988) il suo primo brano di successo, Voodoo Ray, registrato nello studio di casa e per la prima volta eseguito nella mitica Hacienda.  Voodoo Ray è generalmente accreditato come primo brano di acid house prodotto in Gran Bretagna.  Arriva al no. 12 nella classifica inglese.

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Nel 1989 c’è ancora tempo per qualche rancorosa coda del divorzio dagli 808 State, quando i suoi ex-compagni pubblicano un brano intitolato Pacific State, indicando Gerald quale co-autore, mentre lui reclama di esserne stato unico autore e contesta che il demo sia stato finito senza il suo consenso.  Ma intanto anche la sua carriera solistica prosegue e Gerald pubblica un EP contenente la colonna sonora del film Trip City (tratto da un romanzo di Trevor Miller) e infine approda al suo primo disco solista, intitolato Hot Lemonade. 

Vagabondando nel web si incontrano per lo più commenti entusiasti su questo album d’esordio, ma la stampa dell’epoca non lo trattò molto bene. Musica dance, ovviamente, giocata sulle ripetizioni e con il rischio della monotonia dietro l’angolo, ma con alcuni risultati sorprendenti, come la title track Hot Lemonade, che si avvale della voce di Brenda Petrie, o Rhythm Of Life che nel suo incedere uniforme risulta ipnotica, o ancora la splendida Music Sweet Music, anch’essa accompagnata dalla Petrie, magnifica, misteriosa e serena al tempo stesso, come il mare; la seconda parte è meno brillante, ma si riprende con le conclusive I Am Somebody e Tranquillity On Phobos, nelle quali l’elettronica non impone la propria meccanica ripetizione di suoni.

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Nel 1990 riceve l’onore di vedere pubblicate nella prestigiosa collana The Peel Sessions, curata dal leggendario dj della BBC, John Peel, un album contenente registrazioni appositamente effettuate il 30 ottobre del 1988, unico musicista dance ad essere ammesso in una rassegna che aveva scoperto e consacrato buona parte della scena new wave britannica. Scrive Luca De Gennaro, recensendo la raccolta su Rockstar: “Ciò che differenzia questo disco dalle altre produzioni house è il netto avvicinamento tra musica da ballo e avanguardia elettronica. Questa musica, registrata per la radio, dunque senza intenti commerciali, rappresenta l’anello di congiunzione tra la sperimentazione di Philip Glass e la disco music. Il genere più intellettuale e quello più popolare si incontrano sul terreno della serialità.” (2, voto 7).

Ma il 1990 è soprattutto l’anno di pubblicazione di Automanikk, il suo secondo album in studio.  Il brano di apertura, To The Other Side, si pone come anello di congiunzione tra la musica house e l’elettronica più colta: con la metallica e misteriosa voce femminile a contrappuntare la base elettronica sarebbe piaciuto al David Byrne di My Life In The Bush Of Ghosts; la title track è vivace con la voce femminile a colorarla, mentre, sebbene piacevole (come, va detto, quasi tutto il disco), è più convenzionale Emotions Electric 2. Ci sono anche brani mortalmente monotoni, come Eyes Of Sorrow e I Feel Rhythm che convivono con pezzi molto belli, come Stella con un assolo chitarristico sulla incalzante base ritmica ed interventi di fiati. Blame The Artist è poco più che un intermezzo e anche Untitled non esce dal bozzolo. Meglio I Won’t Give In: sebbene anch’essa uniforme nello sviluppo musicale e nonostante un finale un po’ troppo dada, riesce a comunicare. Chiude con un rifacimento del celebratissimo singolo di esordio, reintitolato per l’occasione Voodoo Ray Americas, che resta però prigioniero di suoni sintetici e di campionamenti vocali poco incisivi.  

Complessivamente, non il miglior lavoro di Gerald, come riportato anche da Luca Bernini in sede di recensione su Rockstar: “Un disco che celebra i fasti di questo sound, un po’ acid, un po’ house e un po’ monotono che impera nelle discoteche di mezzo mondo (...) dando vita ad una serie di ‘martelloni’ ipnotici, accattivanti e talvolta anche piacevoli, che però non si differenziano molto l’uno dall’altro. Unico episodio singolare è Stella, una cavalcata per chitarra e orchestra che ricorda molto Jeff Beck. Molto carine sono anche la title-track, I Feel Rhythm e la cibernetica Blame The Artist. Il disco è pieno di riferimenti a sonorità elettro-tecno-pop, pur senza disdegnare l’inserimento di elementi che richiamano i ritmi tribali dell’ormai sempre meno lontana Africa. Un disco per i patiti della discoteca, i non militanti possono astenersi.” (3, voto 5,5)

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Spirito inquieto, curioso e intraprendente, Gerald non si limita a sperimentare con la sua musica: in parallelo avvia una propria etichetta personale, la Juice Box Records, che nel tempo diventa una fucina di singoli, spesso realizzati dallo stesso Gerald sotto diversi pseudonimi (detesto questa abitudine invalsa nella musica dance, letale per il mio spirito da archivista...): alcuni di questi saranno raccolti sul suo terzo disco, uscito nel 1992 e intitolato 28 Gun Bad Boy, e vengono oggi additati come il rito fondativo della musica jungle. Se siete collezionisti preparatevi ad aprire il portafogli, perché il disco è venduto online a prezzi proibitivi. 

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Nel 1995 pubblica Black Secret Technology, che arriva al no. 64 delle classifiche britanniche, con contributi di Goldie e Finlay Quaye. Il disco è immediatamente incensato dalla critica e ancora oggi viene considerato una delle più importanti, se non la più importante, espressione della jungle music. I primi brani sono tutti giocati su atmosfere quiete, con inserti bassi a contrappuntare e, nel caso della splendida So Many Dreams, un meraviglioso lavoro vocale femminile. L’elettronica è molto più protagonista rispetto ai lavori precedenti, ma Gerald non rinuncia mai alla traccia melodica e ad un uso della voce non meccanico.  Il disco è effettivamente molto più maturo e realizzato rispetto agli album che lo avevano preceduto e si mantiene su alti livelli in modo costante, cominciando a declinare solo nel finale. 

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Due anni dopo, nel 1997, Gerald si trasferisce a New York, dove la scena dance sta soppiantando quella inglese.  Il successivo progetto discografico, Essence esce solo nel 2000, ma era un progetto in gestazione da diversi anni che era stato annunciato con il titolo di Aquarius Rising.  E’ un album rivoluzionario per Gerald, perché, per la prima volta, abbraccia la forma canzone, mescolando ritmiche dance e strutture melodiche pop. 

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In un’intervista al Mucchio Selvaggio Gerald spiegò il ritardo e lo spirito del disco: “A questo album ho lavorato molto ed in un periodo molto lungo, a causa di problemi con le case discografiche. Se non stai attento, ti fregano sempre... è la legge del mercato discografico. Quando ti ci invischi dentro, perdi di vista i tuoi veri obbiettivi. Ho avuto tempo per riflettere su quello che stavo facendo e come lo stavo facendo.  Anche per questo il disco comprende cose che in parte sono differenti tra loro. Ho voluto inserire molte canzoni per fare un album che si potesse ascoltare, prima ancora che ballare, una via di mezzo intelligente tra quello che è il drum’n’bass nei club e quello che è nelle case di tutti.” (5) 

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Essence si apre con un’introduzione parlata (voce di Jennifer Neal) che stabilisce le linee guida filosofiche (!) del disco, con un richiamo alla unità dell’universo.  Poi un bellissimo strumentale The First Breath, introduce alle canzoni che, tuttavia, non convincono molto: sono come trattenute, slegate, con scarsa interazione tra base musicale e cantato. La ritmica è meccanica, mentre la voce si tiene su un registro delicato, e il risultato finale non è dei migliori.  La vocalist principale è Wendy Page, già fondatrice e cantante degli Skin Games (che scomparvero senza lasciare tracce dopo un solo album di buona qualità): lei ha una timbrica alta, che ricorda un po’ Kate Bush, ma senza l’ampiezza di toni che la mitica KB era capace di raggiungere (oddio, magari la uniformità le era imposta da Gerald). La verità è che queste non sono canzoni, ma musica con voce cantante adoperata come ulteriore strumento.  Complessivamente, a mio parere, un album non buono.

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Eppure Gerald aveva un progetto ben chiaro in mente nell’affrontare un album di canzoni.  Nella medesima intervista sopra richiamata disse: “L’essenza del disco è muoversi continuamente da un fulcro centrale, che è quello del ritmo in sequenza, e approdare in luoghi nuovi e diversi” (5).  E ancora: “Lavorare con il cantato è emozionante, perché spesso, inaspettatamente, ti rendi conto che la voce non fa altro che interpretare quello che tu avevi in mente quando hai creato un beat, ma che hai lasciato inespresso alla radice di quel beat.  La voce ha spesso il potere di tirare fuori le emozioni e di esprimerle più direttamente.  Questo mi piace molto, come mi piace anche la bella sovrapposizione e interazione tra cantato e beat... se riesci a farla funzionare bene può uscire qualcosa di inaudito.” (5)

Nella sua recensione del disco Ugo Malatacca, che è anche l’autore dell’intervista di cui abbiamo riportato qualche stralcio, scrive: “E’ l’esplosione del drum’n’bass nella sua forma canzone a poter alimentare qualche speranza verso un’evoluzione efficace e creativa del beat asimmetrico e veloce. (...) Con i suoi ritmi spezzati, accelerati, poi improvvisamente dimezzati e le atmosfere sempre capaci di catturarti, questo album di certo tenta una strada oltre alla classificazione tradizionale dei prodotti discografici. (...) Ricco di partecipazioni (Louise Rhodes dei Lamb, Wendy Page e Lady Kier tra gli altri), Essence riesce a congiungere con estrema raffinatezza stati alterati del beat e ambientazioni emotive molto delicate. Fosse uscito solo qualche anno fa questo album sarebbe stato considerato biblico, tali e riusciti sono gli episodi che raccoglie. (...) Il soul urbano ha tanti elementi che lo compongono e descrivono, questo album è l’essenza di tutti.” (4)

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Fece seguito un lungo periodo di silenzio, dal quale Gerald riemerse solo nel 2005: aveva avuto problemi legali con le case discografiche che avevano congelato per tutto quel tempo i suoi progetti musicali e una volta risolti annunciò di voler costituire una sua etichetta, mettere su una band “con cui suonare in maniera regolare”, portare il proprio live show in Europa e riscoprire molti brani scritti durante la sosta forzata e mai pubblicati.  Damir Ivic sul Mucchio Selvaggio annotò: “Un genio scostante, Gerald. Uno che negli anni ha raccolto molto meno di quello che avrebbe dovuto, anche per rapporti molto molto problematici con le persone e con le etichette con cui è stato sotto contratto. Come succede spesso a chi finisce con l’essere malmostoso nei confronti del music biz, all’ostracismo da parte del sistema ha fatto seguito anche un inaridimento della vena creativa.” (7)

Il nuovo disco segnò il ritorno alla musica atmosferica, si intitolava To All Things What They Need e secondo Rolling Stone, pur essendo di buona qualità musicale, evidenziava una perdita di carica creativa: “C’è stato un tempo lontano in cui Gerald Simpson fu un innovatore della techno, e pure serio. Poi fu un innovatore del drum&bass interiore. Poi smise di innovare e cominciò a produrre soul elettronico, cristallino, anche se un po’ di maniera.  Immutatamente manierato lo ritroviamo anche oggi, pure se un pezzo come First Try dimostra come la profonda vena emotiva di un tempo non si sia ancora del tutto prosciugata.” (6)  

Meno drastica l’opinione del Mucchio Selvaggio, che ritiene che il disco “pur con qualche caduta di tono e qualche passaggio un po’ datato torna a proporre un’elettronica sufficientemente coraggiosa, sufficientemente visionaria, meno legata a stilizzazioni aride. E poi a un certo punto c’è First Try, dove sembra veramente di risentire gli 808 State.” (7)  E a conforto di tale ultima annotazione, anche Gerald conferma di aver simbolicamente chiuso il cerchio con un ritorno agli inizi: “Ma sì, penso lo si possa dire. Ho voluto rinfrescare la memoria alla gente.  Ho notato che ormai mi si conosceva solo per il drum’n’bass è questo è veramente fuorviante. La musica che più mi interessa è quella che corre libera, quella che è meno codificabile. Inizio con una melodia, composta da me oppure campionata. Appena ce l’ho comincio a suonarle contro: a stravolgerla, a rigirarla completamente, a sfidarla. Da lì poi nascono le parti ritmiche, anch’esse sempre ispirate, anche se in maniera indiretta, dalla struttura o dal semplice spirito di questa melodia destrutturata e rinnovata.” (7)

L’apertura del disco è totalmente ambient, con la suggestiva American Cars; il suono degli 808 State ricompare con To Love, mentre la successiva Millennium Sanhedrin si colloca a metà strada, con la voce di Ursula Rucker recitante (con eco) su di una base ritmica quietamente misteriosa.  I livelli sono alti, sarà anche meno innovativo, ma riascoltandolo a distanza di tempo, quando la prospettiva appiattisce l’evoluzione, resta solo la qualità, che è notevole. Call For Prayer è misticheggiante, su ritmi orientali, con una voce femminile nel ruolo del muezzin (stupenda). Belle anche Tajeen e la molto decantata First Try (che per me non è il pezzo più bello del disco), poi l’album ha un calo, avvolgendosi su di una poco interessante ripetitività ritmica. 

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La continuità invocata dall’irrequieto Gerald dura lo spazio di un album, Proto Acid, registrato dal vivo a Berlino e uscito nel 2006, poi la sua carriera, come un fiume carsico, si rimmerge fino al 2012, quando mette mano ad un progetto chiamato REBUILD insieme a Graham Massey, già suo compagno negli 808 State, e questo produce How Long Is Now, album uscito nello stesso anno.  Nel 2013 è la volta di un album particolare Silent Spread Sound Spectrum, pubblicato dalla Society of Sound, un marchio della Bower & Wilkins che distribuisce ai propri abbonati dischi selezionati, tra gli altri, da Peter Gabriel e dalla London Symphony Orchestra.  L’intero disco è stato creato al computer, con alcuni campionamenti aggiunti successivamente. “Sono affascinato dalla scienza del suono.  Silent Sound Spread Spectrum (SSSS o S-quad o Squad) è una tecnologia asseritamente utilizzata dal Ministero della Difesa degli USA che, usando come vettore delle trasmissioni di onde sonore a frequenza ultra alta, mira alla programmazione subliminale delle persone.  Con questo sistema, è facile impiantare messaggi non udibili direttamente nel subconscio delle persone e tutti siamo vulnerabili. Questa composizione dura 50 minuti e non è costruita su nessuno stile particolare, ma dovrebbe produrre una sensazione di relax e freschezza nell’ascoltatore.” (AGCG, 1).

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Successivamente al 2013 Gerald non ha prodotto altri dischi, dedicandosi più alle performance.  Nel 2015 dichiarava di essere particolarmente interessato alle live session nei club: “Un modo innovativo di presentare la musica dal vivo, basato sull’idea di essere al centro della pista da ballo e ad alla stessa altezza di chi balla. Vorrei creare uno spazio che riproduca l’ambiente di uno studio di registrazione, ma allo stesso tempo stando al centro della pista, così da poter vedere quello che succede intorno a me ed essere più facilmente in grado di creare la giusta atmosfera ed il ritmo adatto per quella specifica situazione.  Più o meno come le chef table nelle cucine dei ristoranti: è una chef table che porta il cibo direttamente alla gente, nel momento in cui viene prodotta è già sul dancefloor. Quello che sto cercando di fare è di far prendere la riproduzione del suono nei club in modo molto più serio di quanto non avvenisse in passato.” (1)

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Per la conclusione di questa scheda possiamo usare una dichiarazione di Gerald che riassume la propria parabola artistica, senza false modestie: “Penso che sì, effettivamente si può dire che io sia stato uno snodo importante nella musica elettronica come la conosciamo adesso. Non voglio dire che io sia gran chè migliore di altri, però insomma, quando ho cominciato a fare house era considerata una roba da checche o da sfigati – dopo Voodoo Ray non più. Quando mi sono dedicato alla jungle / drum’n’bass, la si vedeva solo come la colonna sonora dei peggiori tamarri delle periferie nere – dopo Black Secret Technology si è preso a parlare di intelligent jungle ed è diventato il genere musicale più avanguardista ed emozionante.  Forse è un caso?  Forse no. Di sicuro non è solo merito mio... ma qualche ruolo lo avrò giocato.” (7)

Ma considerando che il ragazzo chiamato Gerald ci ha abituato a lunghi periodi di silenzio discografico, non si può escludere che altre pagine siano da scrivere in futuro.
 

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Roberto Cappelli 

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Bibliografia:


1.      Voce “A Guy Called Gerald”, Wikipedia, gennaio 2022;

2.      Recensione di The Peel Sessions di Luca de Gennaro su Rockstar no. 114 del marzo 1990;

3.      Recensione di Automanikk di Luca Bernini su Rockstar no. 118 del luglio 1990;

4.     Recensione di Essence di Ugo Malatacca su Mucchio Selvaggio no. 414 del 17 ottobre 2000;

5.     Ritmi sincopati, intervista di Ugo Malatacca su Mucchio Selvaggio no. 416 del 31 ottobre 2000;

6.     Recensione di To All Things What They Need di Fabio De Luca su Rolling Stone (It) no. 17 del marzo 2005; 

7.    Spot on A Guy Called Gerald di Damir Ivic su Mucchio Selvaggio no. 608 del marzo 2005.
 

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