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A CERTAIN RATIO: storia e discografia

La prima produzione degli ACR è un singolo uscito nel 1979 è intitolato “All night Party” (retro: “The Thin Boys”).

Il 45 portava in copertina foto di Lenny Bruce e Anthony Perkins, ad avvertire il mondo che gli ACR appartenevano ad una tribù tutt’altro che solare.  Il dischetto all’epoca vendette tremila copie, oggi – come molte cose degli ACR – è di fatto introvabile.  La discreta eco ottenuta dal singolo convince Topping che la musica può essere qualcosa più di un passatempo spingendolo a lasciare le ferrovie e, mossa ancor più importante in prospettiva futura, ad arruolare un batterista, il falegname coloured Donald Johnson.
Con la formazione così completata nel 1980 gli ACR pubblicano “The Graveyard And The Ballroom”, il primo lavoro esteso, prodotto dal guru della Factory, Martin Hannett, e uscito solamente in cassetta (erano altri tempi…).  Il nastro, a lungo introvabile, è stato ristampato dalla Soul Jazz nel 2004, con anche un paio di bonus: Chi all’epoca lo ascoltò, come Giacomo Mazzone, lo descrisse come basato su di “un funky che tiene conto degli insegnamenti della new wave”; in sede di recensione della ristampa Valeria Rusconi su Rolling Stone ne dà un giudizio entusiastico: “Un disco oscuro, che vi succhierà gli ultimi spasmi vitali facendovi contorcere in balli estremi. Catartici come i Joy Division, funk come i Gang of Four, elettro sperimentali come i Durutti Column.” 
La prima facciata era registrata in studio, la seconda riprendeva un concerto tenuto all’Electric Ballroom come spalla dei Talking Heads, all’epoca già affermatissimi; si potrebbe supporre che un giovane gruppo britannico ammesso alla corte dei nuovi alfieri dell’underground newyorchese tocchi il cielo con un dito, ma a Simon Topping certamente non faceva difetto l’autostima, tanto che arrivò a dichiarare “Il solo fatto che noi suoniamo rende ridicoli i Talking Heads”  

 

Non pensate ad una smargiassata episodica; gli ACR coltivavano scientificamente un’immagine fredda, distaccata, priva di empatia, con tratti decisamente scostanti e arroganti nel modo di porgersi con la stampa (che volentieri contraccambiava la mancanza di feeling) ma anche nei confronti del pubblico o durante i concerti. “Perché dovremmo sorridere? Stiamo concentrandoci per cercare di fare qualcosa. Sorridi mentre stai scrivendo o lavorando? Anche noi sorridiamo, qualche volta, quando ci divertiamo a fare una cosa”.  Il successo che arrise all’opera in Gran Bretagna fu notevole ed il nastro divenne oggetto da collezione, anche se, a distanza di tempo, Topping non ne sembrasse entusiasta, anzi: “Lo odio. Non mi piace quel genere di musica. All’epoca era l’unico genere di musica che potessimo suonare, perché non richiedeva troppa tecnica” .
Con il 1980 gli ACR accentuano ancor più la loro inclinazione per la musica nera, tanto che si dotano di una sezione di fiati e dichiarano di volersi rifare a Miles Davis.  Noterà Giacomo Mazzone: “L’innesto produce risultati sorprendentemente positivi: ‘una certa logica’ perversa accomuna il passato new wave dalle atmosfere paranoico-elettroniche alla Joy Division tipica dei gruppi Factory al nuovo ritmo nero che sta invadendo il mondo”.

 

E’ con queste premesse che nasce il loro primo vero lp, “To Each…”, pubblicato nell’aprile del 1981 ed ancora oggi considerato il loro vero capolavoro (occhio, che in questo caso il termine si giustifica solo relativizzando il giudizio alla loro produzione…).  E’ un disco non facile, suonato in modo elementare, ma capace, attraverso la ripetitività delle basi elettroniche lacerata dagli interventi dei fiati e delle percussioni, di creare in qualche caso atmosfere non prive di suggestione.  Uno di quei lavori che trovano i loro titoli di merito più nella audacia del progetto che nella qualità della realizzazione musicale (cosa non infrequente nella storia di un genere musicale, come quello rock, che è strettamente connesso ad una realtà circostante in veloce e continuo cambiamento).
Tuttavia, non mancano anche autorevoli estimatori pronti a classificare questo lp come un autentico capolavoro; così si esprime, oltre vent’anni dopo, Eddy Cilià sul Mucchio Selvaggio, descrivendo il loro linguaggio musicale come segue: “Rispetto ai Gang Of Four, A Certain Ratio hanno maglie più larghe, più variegate influenze (parecchio jazz nella tromba di Topping) e nessuna sovrastruttura ideologica. Rispetto ai Talking Heads, il loro funk è meno fluido e più freddo, ha più spigoli e (...) è disposto al dub”. Gli ACR non sono certo dei virtuosi, anzi, la loro tecnica lascia molto a desiderare, ma lo stile adottato camuffa le loro lacune; l’ampio uso di elettronica e la ripetitività primitiva dei loro temi musicali sono forse frutto di una scelta filosofica, o forse un consapevole adattamento ai loro limiti.  Del resto, è lo stesso Topping a ricordare, in un’intervista di qualche anno dopo, che quelli erano stati gli anni della riappropriazione della musica da parte dei giovani. L’affermazione che chiunque potesse prendere uno strumento e suonare, anche non avendo la minima cognizione musicale, fu al tempo stesso la forza ideologica della musica punk (che nella seconda metà degli anni settanta permise di rianimare una scena musicale finita in un vicolo cieco) e la sanzione del limitato valore musicale di quel movimento.  Simon Topping, anni dopo, trovava similitudini con questo spirito, ma prendeva decisamente le distanze dalla scena punk: “Cosa intendi dicendo che il nostro sound era più scheletrico agli inizi, che non sapevamo suonare? Bhè, sostanzialmente è vero, ma noi volevamo suonare, così l’abbiamo fatto.  Mi rendo conto che come approccio è simile a quello punk, ma il semplice fatto che altri avessero lo stesso approccio non significa che noi facessimo parte di quella scena.” Sull’onda della pubblicazione del disco, distribuito in Italia dalla Base Records, gli ACR vengono in tournée nel mese di maggio con un organico arricchito da una cantante (Martha Tilson, detta Tilly); sulla qualità del concerto la critica nostrana si divide.  Fondamentalmente positivo il giudizio di una testata del resto “buonista” come il Ciao 2001: “Fin dal primo pezzo (una partenza elettronica, con un attacco di fiati free-jazz continuamente rinnovato su base ritmica funky retta da batteria, basso e percussioni), il pubblico si accorge di avere davanti qualcosa di differente dal solito e anche dall’insolito finora ascoltato in Italia. L’approccio all’africanità che contraddistingue la loro musica non passa infatti per le mediazioni intellettuali tipiche dei Talking Heads, né per la via cacofonica scelta dal Pop Group, né infine per la scorciatoia del ritmo addomesticato alla Police.” Non altrettanto convinto appare invece il critico di Rockstar, che scrive: “Volti inespressivi, pantaloni larghissimi, immagini alla Hitlerjugend coronati dal candore alieno di Tilly, protagonista di strilli infantili, hanno decapitato la formazione, poco avvezza a mostrar sorrisi e a comunicare con l’audience. (…) Il loro stimolo cerebrale sbandierato tra fughe strumentali di tromba, asettiche percussioni e nastri di circostanza ha ben presto raggiunto le “quote di noia” dipinte negli occhi degli stessi musicisti: salvando Winter Hill, The Fox, Oceans e My Spirit collocheremmo senza ombra di dubbio il loro brevissimo tentativo di new-wave electronic exhibition nella peggiore parodia di impegno a tutti i costi ostentato e poi degenerato nella peggiore non-comunicazione”.

 

Dopo la pubblicazione di due EP confezionati con materiali di risulta dalle session di registrazione dell’album (“Do The Du” e “Flight”, quest’ultima decisamente pregevole ed al livello delle migliori cose inserite in “To Each…”), nel 1982 esce il secondo lp, “Sextet”, ancora caratterizzato dalle atmosfere del lavoro precedente, con qualche timido passo verso una prevalenza della componente musicale più “nera” rispetto a quella elettronica e, quindi, verso una maggiore comunicativa (soprattutto facendo leva sulla sezione di fiati e sulla voce di Martha Tilson). Il giudizio di Federico Guglielmi sul Mucchio non è troppo positivo: “Sextet dimostra (purtroppo) che gli attuali indirizzi del complesso di Manchester sono quelli già proposti, con poca fortuna, nei concerti della primavera ’81, che prevedono un sound freddo e poco comunicativo. Sextet, comunque, mi sembra meno paranoico delle esibizioni live, ma la sua inferiorità qualitativa al raffronto con To Each… mi sembra evidentissima: sempre presenti sono le basi ritmiche funky, ma le soluzioni strumentali che vi si accompagnano non sembrano possedere sufficiente incisività, le composizioni scivolano via, quasi tutte monotone ed inconcludenti. (…) Gli A Certain Ratio deludono le aspettative, confermando le accuse che da sempre gli vengono rivolte, e cioè di non essere del tutto in grado (immaturità?) di dare una convincente attuazione pratica ai loro disegni teorici”.

Poi, come spesso accade, a distanza di tempo i giudizi possono subire una revisione.  Quando, nel 2004, l’etichetta inglese Soul Jazz, nell’ambito di una riedizione di tutta la discografia degli A Certain Ratio, ripubllica Sextet, la valutazione del Mucchio, a firma di Eddy Cilià, gira in positivo: “Ha conservato rimarchevole freschezza, in qualche miracoloso modo coeso benchè passi, ad esempio, da una sferzante Lucinda a una funerea (ombre di Joy Division) Crystal, e da quella a un’ipotesi di Kid Creole versione dark chiamata Gum. O, più avanti, dall’exotica in dub di Rialto a una lunare Below The Canal. Mentre Skipscada annuncia il divampare della passione per il Brasile e in Day One nel funk si insinuano schizzi di piano jazz e lamenti di ottoni. Il capolavoro rimane To Each... ma Sextet è addendo, se non fondamentale, certamente consigliabile.”
Il terzo album viene pubblicato alla fine del 1982, si intitola “I’d Like To See You Again”.  E’ il disco della svolta definitiva: abbandonate le arie intellettualistiche, gli ACR si gettano nell’agone funky, adottando uno stile molto più ruffiano.  Non a caso Simon Topping dichiara: “Cosa ci stanno a fare i nostri dischi in mezzo a quelli degli Scritti Politti e altri gruppi come loro nei negozi? Noi dovremmo stare nella sezione dedicata a Prince e gente del genere!”


Si guadagna in piacevolezza dell’ascolto, si perde molto in originalità: i primi dischi non erano certamente facili da ascoltare, ma la proposta musicale che da quest’album in avanti verrà dagli ACR è molto più anonima, li rende uguali a molti altri e, francamente, senza troppi motivi per preferirli a questi molti altri… Nei giudizi dell’epoca, il disco piace a Gianluca Jandelli di Rockstar (rivista sempre attenta alla musica dance) che scrive: “Il primo lp esprimeva un rock abbastanza cupo, il secondo introduceva delle atmosfere jazzate, mentre in “I’d Like To See You Again” siamo in piena esplosione funky. (…) In questo disco vi è pochissimo cantato in favore di larghi spazi lasciati ai fiati e alle percussioni. (…) Il suono che si trovava nei primi mix (tipico dei Joy Division) non esiste più. Ora ascoltiamo dei brani stupendi che potrebbero essere ballati anche in discoteca (Axis, Guess Who, Touch). (…) Attenzione! Questo disco può infastidire persone con limitate capacità d’immaginazione.” (Voto ***+) Assai meno ben disposta è la critica inglese.  Steve Sutherland sul Melody Maker recensisce così il disco: “Mai in precedenza gli ACR sono apparsi così anonimamente alla deriva come in questi tempi popolati da loro ambigui ex-discepoli. Mai i loro dubbiosi principi e le loro confuse priorità hanno chiesto tanto disperatamente di essere meglio definite. Mai le loro reali capacità sono state messe in discussione. E mai sono state scoperte tanto carenti! E’ stato detto prima, ma ora è vero più che mai; gli ACR sono il gruppo di un batterista e fatta eccezione per la – e forse a causa della – propulsione ipnotica di Donald Johnson, I’d Like To See You Again raramente riesce ad essere più che una raccolta di banali esercizi di perizia strumentale – senza alcun dubbio divertenti da suonare, ma noiosi da ascoltare. Depurato dagli espedienti (un gratuito vocoder in Showcase, alcuni effetti Floydiani ad aprire Sesamo Apriti – Corco Vada”) che restano nulla più che una dichiarazione di intenti, I’d Like To See You Again si ferma all’irritazione ed alla ripetizione laddove (pensavo) l’antagonismo e la sfida sono sempre stati gli ideali degli ACR.”
 

Ci vorrà del tempo prima che gli ACR tornino nei negozi con un nuovo disco.  Le cronache sono avare di indicazioni su cosa sia accaduto tra la fine del 1982 e il 1986, quando appare il loro album intitolato “Force”. Di quel periodo resta un documento nel Live in America, pubblicato nel 1985, solamente in cassetta e quindi non troppo circolato all’epoca (vent’anni dopo è stato rieditato in cd), riprendeva una loro esibizione come gruppo di supporto per i New Order. Secondo Mike Barnes, che lo recensì per Mojo nel 2005, “il loro art funk azzimato e il finto Tropicalia si erano evoluti fino al punto in cui il resto del gruppo poteva cominciare ad interagire con il fenomenale batterista, Donald Johnson. (...) Ma per quanto il gruppo sapesse suonare il funk US che da sempre li ispirava, si erano persi per strada una parte della propria unicità. La versione di Flight, il loro miglior brano di sempre, un originale funk stratosferico che ricorda i Can, uscito quattro anni prima, suona più liscio, ma anche più perfettino.” (XXIV).

Certo, non tutto deve essere filato per il verso giusto in quegli anni, visto che la formazione che incide il nuovo disco non comprende quello che, fino a quel momento, è apparso il punto di riferimento indiscusso del gruppo, Simon Topping.


Gli ACR che ci vengono tramandati da Force sono più maturi e, come spesso capita alle persone mature, meno dirompenti; hanno perso la inclinazione giovanile ad accarezzare contropelo l’ascoltatore e se la personalità fa un po’ difetto, purtuttavia il disco risulta piacevole e come tale viene giudicato dalla critica.  Anni dopo Carlo Bordone sul Mucchio Selvaggio, un po’ troppo enfaticamente, giungerà ad affermare che questo è “probabilmente il loro disco migliore”, ma anche la valutazione dell’epoca di Enrico Sisti su Rockstar è positiva: “Force è il solco funky che si percorre da qualche tempo nella desolata sequenza di ciminiere del nord Inghilterra. Un tempo logico, perché rappresenta un escamotage, un modo di sfuggire al grigiore (e Dio sa quanto faccia bene agli uomini un po’ di ritmo al momento giusto), oggi questo funky suona già antico. Ma per quanto abitato da ragnatele e visitato giornalmente da una cinquantina di rughe, rimane un modello preciso ed un fatto storico. Mi son fermato a Bootsy, Take Me Down, Only Together, Naked And White. Che sono le cose più avvincenti.” Nell’estate del 1987 un’etichetta italiana, la Materiali Sonori, pubblica quattro volumi di una collana intitolata “Greetings From San Giovanni Valdarno” (chissà se alle orecchie di un americano il titolo del disco di Springsteen, “Greetings From Asbury Park” suona altrettanto vagamente ridicolo…), che assembla materiali da concerti tenuti da gruppi new wave in Toscana o registrati negli studi toscani.  Tra serissimi rappresentanti della scena più intellettuale della new wave, come Blaine Reininger, Stockholm Monsters e Durutti Column, trovano posto anche gli ACR, cui è dedicato il quarto volume.  Scrive Pierfrancesco Pacoda su Rockstar: “Il loro immancabile funky per sfilate di moda e cocktail in riva ad una piscina è ancora più accattivante, pronto per essere voracizzato da migliaia di juke box”. (Voto 6,5)


Nel frattempo si interrompe il rapporto tra gli ACR e la Factory: la relazione con la storica etichetta di Manchester era stata quasi irripetibile. “Non abbiamo nessun contratto, solo accordi verbali. Alla Factory sono amici e onesti. Non firmiamo contratti, per questo funziona bene. Se vogliamo fare un disco lo facciamo, se non lo vogliamo fare non lo facciamo. E’ così semplice!” aveva dichiarato Simon Topping nel 1982. Semplice, ma utopistico: difficile pensare che con la major A&M, con la quale nel 1989 producono “Good Together” abbiano potuto operare nella stessa, allegra anarchia.  Ma in fondo, non avevano più tanto bisogno di libertà creativa: la loro musica era ormai saldamente mainstream e quindi tanto più adatta ad una grande industria di quanto non si potesse trovare a proprio agio in un’etichetta indipendente. La critica italiana esprime giudizi sostanzialmente positivi sul disco, mettendone in luce quegli aspetti di gradevolezza così distanti dalle caratteristiche dei loro esordi.  Va dritto al punto Enrico Sisti: “Oggi è un’altra cosa, oggi è un altro mondo. ACR è diventata una band che punta sulla suggestione di love songs spesso deliziose, con assoli di sax che rimandano al Marsalis di Sting. (…) Strano e bello, Good Together si fa amare per la sua discrezione intelligente e per dei ritornelli che ritornano quando meno te lo aspetti. I ballabili hanno un debito con i Metro e con i Korgis. E persino con i Ten c.c.” (Voto 7,5); e niente di diverso emerge dalla recensione di Pietro D’Ottavio per il Ciao 2001: “Quest’ultimo Good Together non si discosta dal solco compositivo del gruppo, con soluzioni sonore molto meno aspre che in passato. Infatti l’album è pieno di brani gradevoli, ricco di suoni dolci, morbidi, anche se sapientemente dosati. (…) Nel complesso il disco degli ACR è un ottimo lavoro, che però molto raramente brilla di genialità, e che non riesce a regalare l’eccitazione creativa ed emotiva dei primi album del gruppo inglese, puntando esclusivamente sulla bellezza dei suoni e degli arrangiamenti” Negli anni novanta gli ACR tengono la barra dritta sfruttando il vento che gonfia le loro vele: infatti, l’ibridazione tra musica soul o funky e musica elettronica, che nei primi anni ottanta profumava di eresia, è ormai entrata a pieno titolo nel novero dei generi musicali più frequentati dagli appassionati.   Nel 1990 esce “acr:mcr”, disco che poco aggiunge alla loro discografia, ma il cui titolo diverrà una specie di marchio per le iniziative del gruppo.  Due anni dopo è la volta di “Up In Downsville”; nella propria recensione su Vox John Gill traccia un paragone con il capolavoro di Jah Wobble, “Rising Above Bedlam”, uscito nello stesso anno, scrivendo che “questo disco spesso è altrettanto sublime, e meno goffo, di parti di quell’album” per concludere che “c’è abbastanza materiale forte in questo disco – la sognante e latineggiante Salvador’s, lo splendente electro di Tekno 4 An Answer – perché Up In Downsville possa esercitare una forza d’attrazione gravitazionale sul vostro giradischi” (Voto 8)

 

Nell’estate del ’94 esce per la Creation una raccolta di loro brani rimixati secondo i dettami della dance inizio ’90. Si intitola “Looking For ACR”, loro frase genetica.  Questa volta l’accoglienza di Vox, per la penna di Phil Strongman, è tiepida: “Qui i loro vecchi successi sono sottoposti ad un pesante trattamento e ne escono con un suono più morbido di uno spot televisivo di Stephen Fry. (…) Shack Up viene completamente svirilizzata dall’elettronica, ma quelli che non hanno memoria della loro cover originale del classico funk anni settanta probabilmente riusciranno a scaldarsi con questa versione. Flight guadagna un po’ in atmosfera, anche se dal punto di vista vocale ora sembra Under Pressure dei Queen senza David Bowie. Touch e Life’s A Party subiscono lo stesso trattamento, non rovinate, ma neanche particolarmente migliorate.  Forse funzioneranno per presentarli ad una generazione del tutto nuova. Forse…” (Voto 5) Con la metà dei novanta gli ACR sembrano entrare in una fase di riflessione e di ritorno alle origini, più in senso geografico che musicale.  Intanto lasciano la A&M e si accasano con una piccola etichetta di Manchester, la Rob’s Records di Rob Gretton, già collaboratore di Wilson alla Factory; poi, in un momento in cui Manchester è ormai diventata l’ombelico del mondo della musica rock, da ormai vecchi maestri collaborano con i nuovi protagonisti della scena di Manchester, come Bernard Sumner (Joy Division) e Shaun Ryder (Happy Mondays): da Manchester a Madchester, in un ideale passaggio di testimone.   Nel 1996 esce “Change The Station”, poi è un lungo periodo di silenzio; il gruppo non si scioglie, suona di tanto in tanto in concerto, ma rimane improduttivo. 
 

La pausa viene interrotta nel 2002 dall’uscita di un’antologia contenente anche alcuni inediti, intitolata “Early”. Il giudizio di John Mc Cready su Mojo assomiglia ad un epitaffio: “I pionieri della Factory ACR, che più che inventare hanno reinterpretato la musica latina, il funk ed il jazz con una creatività che non si poteva ignorare, non c’è dubbio che meritino l’attenzione loro dedicata.  La musica che hanno messo insieme oggi può sembrare acerba (come suggerisce il titolo) ma anche sensazionalmente dark, dettagliata e ritmicamente inventiva. Che gli ACR sapessero a stento suonare quando hanno iniziato non è di per sé troppo significativo. Ciò che è rilevante è come, con l’assistenza del fiammante funk del batterista Donald Johnson, abbiano saputo tramutare la loro goffaggine manuale nostalgica in un sound completamente nuovo. (…) Il volo degli ACR si è infine concluso, senza troppo successo, in acque più pop, macchiando la loro reputazione “seria”, ma restano al centro della rivoluzione dance che ha sfuocato la linea che corre tra Ian Curtis e James Brown, mostrando che tra loro non c’è poi troppa distanza”.

 

 

ROBERTO CAPPELLI

 

 

 

Bibliografia:

 

Intervista a Simon Topping, Ciao 2001, 23/1981

Intervista a Frank Worrall, Melody Maker, 15.1.1983

Intervista a Red Ronnie, Rockstar n. 23, Agosto 1982.

Sergio D’Alessio, Rockstar n. 10, Giugno 1981.

Eddy Cilià, Mucchio Selvaggio n. 592, gennaio 2004.

Federico Guglielmi, Mucchio Selvaggio n. 50, marzo 1982.

Gianluca Jandelli, Rockstar n. 29, Febbraio 1983.

Steve Sutherland, Melody Maker 4.12.1982  

Mucchio Selvaggio n. 495, 16/22 luglio 2002

Enrico Sisti, Rockstar n. 76, gennaio 1987.

Pierfrancesco Pacoda, Rockstar n. 84, settembre 1987.

Enrico Sisti, Rockstar n. 111, dicembre 1989.

Pietro D’Ottavio, Ciao 2001, n. 2, 16 gennaio 1990.

John Gill, Vox, gennaio 1993.

Phil Strongman, Vox, luglio 1994.

 John Mc Cready, Mojo n. 103, giugno 2002.
Eddy Cilià, Mucchio Selvaggio n. 571, 23 marzo 2004.
Valeria Rusconi, Rolling Stone (IT), n. 6, aprile 2004

Mike Barnes, Mojo n.140, Luglio 2005.

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